LA TUTELA DEI MINORI NELL'ATTIVITA' GIORNALISTICA

Chiunque diffonde sentenze o altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado è tenuto ad omettere in ogni caso […] le generalità, altri dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l’identità dei minori”. E’ l’art. 52, comma 5°, del codice della privacy (D.Lgs. n. 196/2003), che segna il punto di arrivo della tendenza, iniziata alla fine degli anni ’80, a riconoscere al minore una tutela rafforzata in tema di diritto alla riservatezza.

Già la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 (resa esecutiva in Italia con L. n. 176/1991, dove per “fanciullo” si intende il minore di anni 18) aveva sancito all’art. 16 il divieto “di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata”; anche se, per la verità, quel riferimento ad “arbitrarietà” e “illegalità” era non solo scontato, ma anche inutile, poiché ogni Stato è libero di stabilire cos’è “arbitrario” o “illegale”. La Convenzione voleva solo “stimolare” gli Stati firmatari ad adottare nei rispettivi ordinamenti concrete misure legislative per evitare che la cronaca saccheggiasse la vita del minore, anche in considerazione delle sue ridotte capacità di difesa.

E l’Ordine italiano dei Giornalisti non si fece attendere. Insieme alla Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) e in collaborazione con “Telefono Azzurro”, il 5 ottobre 1990 (quindi ancor prima che il Parlamento italiano recepisse la Convenzione di New York) vara la Carta di Treviso (poi integrata dal “Vademecum” del 25 novembre 1995 e ulteriormente modificata il 10 ottobre 2006). E’ un manifesto contro lo sfruttamento mediatico del minore. Il suo grande valore è sintetizzato nella seguente affermazione: “la tutela della personalità del minore si estende anche […] a fatti che non siano specificamente reati (suicidio di minori, questioni relative ad adozione e affidamento, figli di genitori carcerati, etc.) in modo che sia tutelata la specificità del minore come persona in divenire, prevalendo su tutto il suo interesse ad un regolare processo di maturazione che potrebbe essere profondamente disturbato o deviato da spettacolarizzazioni del suo caso di vita, da clamorosi protagonismi o da fittizie identificazioni”.

L’importanza di questa affermazione sta nell’estensione della tutela del minore a fatti che non siano specificamente reati. Una tutela che considera il minore un valore “assoluto”. Viene quindi superata l’impostazione tradizionale che vedeva la potenziale lesività del diritto di cronaca solo quando il minore fosse soggetto attivo o vittima di un reato.

I principi della Carta di Treviso vengono recepiti e rielaborati dal codice di deontologia dei giornalisti, che entra in vigore nell’agosto 1998. Il principio fondamentale viene sintetizzato all’art. 7, laddove si dice che “Il diritto del minore alla riservatezza deve essere sempre considerato come primario rispetto al diritto di critica e di cronaca”. E il Garante per la Protezione dei Dati Personali emette, a partire dal ’98, una serie di decisioni che contribuiscono a chiarire la portata del principio.

Il rafforzamento della tutela della riservatezza del minore parte dal presupposto che in molti casi la cronaca ne danneggia lo sviluppo psico fisico. Ciò porta ad una riflessione. Pur in presenza di un fatto la cui importanza è tale da generare una “notizia”, non sussiste mai l’interesse pubblico alla identificazione del minore protagonista. Infatti, secondo l’art. 7 del codice di deontologia, “il giornalista non pubblica i nomi dei minori coinvolti in fatti di cronaca, né fornisce particolari in grado di condurre alla loro identificazione” (comma 1°), anche in riferimento a “fatti che non siano specificamente reati” (comma 2°).

L’esigenza di garantire l’anonimato del minore attraverso l’occultamento di quei particolari del fatto che possano condurre alla sua identificazione si pone in evidente contrasto con l’art. 6 del codice di deontologia, secondo cui “la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti”. E’ il cosiddetto principio di essenzialità dell’informazione, ma evidentemente formulato in maniera tale da contenere una sorta di ossimoro. Nel senso che i casi in cui sono ammesse le eccezioni possono arrivare ad essere ben più numerosi di quelli per i quali vige la regola dell’essenzialità.

Ma nel caso della cronaca sui minori il principio di essenzialità dell’informazione è certamente salvo, grazie all’apporto derivante dall’art. 7 del codice di deontologia, che impedisce al giornalista di consentire l’identificazione del minore. Quella informazione “dettagliata” che generalmente consente l’art. 6 del codice di deontologia (e che nella maggior parte dei casi rischia di annullare il principio di essenzialità) va invece evitata quando ci si occupa di un minore, perché porterebbe alla sua identificazione. Ciò significa che il giornalista dovrà limitarsi a riportare i fatti che compongono il corpus della notizia (nella sua reale “essenzialità”), tralasciando i dettagli che possano rendere identificabile il minore.

Ma “identificabile” in quale ambito? Nell’ambito territoriale di diffusione della notizia (che spesso coincide con quella nazionale) o in quello in cui si esplica normalmente la vita relazionale del minore?

Se si guarda alla Carta di Treviso, che vuole salvaguardare “la specificità del minore come persona in divenire” nonché “il suo interesse ad un regolare processo di maturazione”, è al domicilio del minore che si deve fare riferimento, poiché è lì che si svolge la sua personalità. In effetti, poco importerebbe se chi risiede a Roma, a Napoli o a Palermo venisse a conoscenza della disavventura di un quindicenne che vive nella provincia di Milano. Il concetto di ambito territoriale va quindi inteso in senso rigido, come luogo interessato dalla quotidianità del minore, poiché è qui che il minore subisce gli effetti della notizia, ossia la diffidenza, il pregiudizio, lo scherno di coloro con i quali è abituato a relazionarsi.

Ora, va chiarita la condotta che il giornalista deve tenere a tutela della riservatezza del minore. Oltre alle sue generalità, dovrà occultare l’indirizzo della sua abitazione e il nome dell’istituto scolastico da lui frequentato. Ma anche le generalità di genitori, parenti, amici non vanno diffuse, come ogni altro dato che possa indirettamente condurre a lui. Ad esempio, non servirebbe a nulla tacere generalità, indirizzo e scuola frequentata dal minore che vive in un paese di poche migliaia di abitanti se si indica nello specifico età e lavoro dei genitori. Anche il luogo dove abitualmente il minore trascorre le vacanze estive può renderne agevole l’identificazione, per giunta in un ulteriore ambito territoriale.

E il comportamento che il giornalista deve tenere per scongiurare il rischio di identificazione del minore è stato precisato dal “Vademecum” del 1995, che è parte integrante della Carta di Treviso. Al punto 3 si legge che va evitata “la pubblicazione di tutti gli elementi che possano con facilità portare alla sua identificazione, quali le generalità dei genitori, l’indirizzo della abitazione o della residenza, la scuola, la parrocchia o il sodalizio frequentati, e qualsiasi altra indicazione o elemento”. Una precisazione quanto mai opportuna, poiché originariamente la Carta di Treviso era piuttosto lacunosa a riguardo.

In sintesi, può dirsi questo. Ogni evento di una certa importanza viene, attraverso il naturale “passaparola”, immediatamente conosciuto nell’ambito territoriale in cui si è verificato. Ciò a prescindere dalla iniziativa degli organi di informazione. Ebbene, la diffusione della notizia potrà considerarsi rispettosa della riservatezza del minore quando non abbia agevolato quella attività di raccolta di informazioni che per ovvi motivi la gente del luogo effettua una volta appreso il fatto. Solo così si potrà dire che la notizia, divulgata perché comunque di interesse pubblico, non ha di per sé portato alla identificazione del minore.

Ma quanto appena detto va necessariamente rapportato al ruolo assunto dal minore nella vicenda. Certamente la pubblicizzazione del fatto avrà conseguenze lesive molto maggiori sul minore quando questi è una vittima, o comunque il fatto accade suo malgrado. Ma quando il minore diventa protagonista attivo della cronaca nera, spesso l’efferatezza e la lucidità manifestate pongono in secondo piano gli effetti della pubblicizzazione della vicenda sullo sviluppo armonico della personalità. Qui non vi sono motivi per impedire che la conoscenza del fatto si diffonda nell’ambiente di riferimento del minore. Se è necessario limitare il più possibile l’identificazione, nel suo stesso ambiente, del minore “down” vessato e malmenato dai compagni di classe, lo stesso sforzo non può essere richiesto a favore della baby gang che diserta le lezioni scolastiche per rapinare e picchiare vecchiette, o che compie sistematicamente gravi atti di bullismo nei confronti di coetanei. Qui opera solo il divieto di diffusione delle generalità, dal momento che la loro identificazione in ambienti ulteriori rispetto a quello di riferimento fungerebbe da inutile “gogna mediatica”, questa sì dannosa al processo di maturazione del minore.

“Gogna mediatica” di cui tuttavia non ha molto senso parlare quando il fatto di cronaca svela una ferocia che non ha precedenti. Si bensi ad Erika e Omar, i due minori protagonisti nel febbraio 2001 della “strage di Novi Ligure”. Tv e giornali non esitarono a diffondere le loro generalità (in alcuni casi le immagini). Da un punto di vista formale, ciò ha rappresentato una palese violazione dell’art. 7 del codice di deontologia dei giornalisti (che vieta di pubblicare “i nomi dei minori coinvolti in fatti di cronaca”). Ma è difficile sostenere che tale violazione abbia potuto mettere in crisi il processo di maturazione dei due. In quest’ottica, va avvalorata un’interpretazione dell’art. 7 che permetta al giornalista di pubblicare le generalità del minore quando l’armonico sviluppo della sua personalità sia già compromesso dalla enorme gravità del fatto. Interpretazione che è la stessa norma a suggerire, vietando la pubblicazione dei nomi di minori soltanto “al fine di tutelarne la personalità”.

Interpretazione che trova riscontro nelle modifiche apportate alla Carta di Treviso dal “Vademecum” del 1995, che in generale mantiene fermo il divieto di identificazione del minore. Ma si legge pure, al punto 6, che “nel caso di comportamenti lesivi o autolesivi – suicidi, gesti inconsulti, fughe da casa, microcriminalità, ecc. – posti in essere da minorenni, fermo restando il diritto di cronaca e l’individuazione delle responsabilità, occorre non enfatizzare quei particolari che possano provocare effetti di suggestione o emulazione”. Per come è formulata la norma, sembra che il timore che qualche coetaneo si identifichi in un modello negativo prevalga nettamente sulla preoccupazione di garantire l’anonimato al minore protagonista attivo della cronaca nera.

La tutela della personalità riemerge in tutta la sua pienezza quando il minore può essere oggetto di una cronaca tesa a creare una “spettacolarizzazione del suo caso di vita”, come si esprime la Carta di Treviso. E’ il caso del bambino che, suo malgrado, finisce al centro della scena perché conteso dai genitori famosi; o perché incappa nella burocrazia delle adozioni. Qui il processo di maturazione del minore verrebbe alterato proprio dalla amplificazione degli effetti negativi che già di per sé il caso produce sulla sua personalità.

Anche quei “clamorosi protagonismi” di cui parla la Carta di Treviso debbono essere evitati. In questa categoria possono farsi rientrare quei fatti che non rappresentano di per sé un pericolo per il minore, ma rischiano di pregiudicare il suo processo di maturazione solo perché i media ne fanno un “caso”. Una prassi particolarmente diffusa negli Usa, dove non si esita a consegnare al grande pubblico il genio precoce che si laurea a 12 anni con il massimo dei voti o la bambina di due anni che parla correntemente e compie alcune operazioni matematiche. Qui è l’immediata assimilazione della personalità dell’adolescente a quella di un adulto particolarmente dotato a minacciarne seriamente l’armonico sviluppo, che non può prescindere da una crescita graduale e consapevole.

In un solo caso l’identificazione del minore è permessa: quando “la pubblicazione sia davvero nell’interesse oggettivo del minore, secondo i principi e i limiti stabiliti dalla Carta di Treviso”. E’ quanto dice l’art. 7, comma 3°, del codice di deontologia. Qui anche la diffusione dell’immagine è ammessa. Si tratta però di stabilire quando una notizia viene divulgata nell’interesse oggettivo del minore.

Qui la Carta di Treviso fornisce un valido aiuto. Innanzitutto, cita l’esempio del bambino rapito o scomparso. In effetti, nessuno potrebbe dubitare dell’utilità che in questi casi la divulgazione della notizia rappresenta per il minore, prevalendo sempre l’interesse al suo ritrovamento.

Un altro caso riguarda la pubblicazione “tesa a dare positivo risalto a qualità del minore e/o al contesto familiare e sociale in cui si sta formando”, come si esprime il “vademecum” del 1995, che è parte integrante della Carta di Treviso. Un principio ribadito dal Garante per la Protezione dei Dati Personali nella Decisione del 6 maggio 2004, secondo cui deve ritenersi lecita “la diffusione di immagini che ritraggono un minore in momenti di svago e di gioco”. Tuttavia, a detta del Garante, resta “l’obbligo per il giornalista di acquisire l’immagine stessa correttamente, senza inganno e in un quadro di trasparenza, nonché di valutare, volta per volta, eventuali richieste di opposizione da parte del minore o dei suoi familiari”.

Il fatto che il giornalista debba “valutare eventuali richieste di opposizione” fa pensare che lo stesso goda di una certa libertà nel decidere di pubblicare notizie “innocenti” riguardanti un minore. Sembrerebbe, cioè, che i genitori e lo stesso minore non possano opporsi alla divulgazione di fatti quando sia evidente – per dirla col Garante – il “positivo risalto a qualità del minore” che la pubblicazione assicurerebbe. La logica è evidente. Qui la pubblicazione non potrebbe mai nuocere all’armonico sviluppo della personalità del minore, essendo divulgati fatti positivi e al tempo stesso non eclatanti.

Ma l’esigenza che il giornalista acquisisca l’immagine “correttamente, senza inganno e in un quadro di trasparenza” fa ritenere inapplicabile l’art. 2, comma 1°, del codice di deontologia nella parte in cui lo dispensa dall’obbligo di qualificarsi e di comunicare la finalità della raccolta dei dati personali quando ciò “renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa”. In altre parole, se in genere il giornalista può spacciarsi per barbone nel carpire notizie o immagini quando questo sia l’unico modo per garantire l’informazione, non altrettanto potrà fare con i genitori dei bambini che giocano nel parco, volendo preparare un bel servizio sull’infanzia e temendo l’opposizione dei genitori a che vengano ripresi i propri figli.

Un approfondimento merita la questione del minore morto. In teoria, l’estrema tragicità dell’accadimento giustifica l’interesse della collettività ad una conoscenza approfondita del fatto, che però accrescerebbe il rischio di identificazione del minore. Ma né il codice di deontologia dei giornalisti, né la legge sulla privacy contengono riferimenti. Pertanto, ci si chiede se e in che misura l’interesse pubblico che inevitabilmente suscita la morte di un minore, possa provocare un avanzamento dei limiti imposti in materia al diritto di cronaca.

Cominciando dal caso del suicidio, se si guarda alle affermazioni contenute nella Carta di Treviso, l’obiettivo primario sembra essere la tutela del minore “come persona in divenire”, dovendosi sempre preservarlo nel suo “regolare processo di maturazione” e da “informazioni e materiali dannosi al suo benessere”, comprese tutte le “possibili strumentalizzazioni da parte degli adulti”. Sembrerebbe, cioè, che la Carta di Treviso si preoccupi, in linea del principio, del minore in vita. Anche se il documento, nella versione originaria del 1990, nell’estendere la tutela del minore “a fatti che non siano specificamente reati”, cita diversi casi tra cui il “suicidio di minori” (lettera b). Un riferimento che sembrerebbe equiparare il diritto alla riservatezza del minore suicida a quello del minore come “persona in divenire”.

Ma a dare una maggiore libertà di azione al cronista nei casi di suicidio di minori sembrano essere le modifiche apportate alla Carta di Treviso dal “Vademecum” del 1995. Il già visto punto 6, in caso di “comportamenti autolesivi” del minore, salva “il diritto di cronaca e l’individuazione delle responsabilità” individuando il limite dell’azione del cronista nel “non enfatizzare quei comportamenti che possano provocare effetti di suggestione o emulazione”. Qui l’espresso riferimento al “diritto di cronaca” e alla “individuazione delle responsabilità” è certamente significativo: se in generale per il minore “vittima”, ma che rimane in vita, il diritto alla riservatezza prevale sempre sul diritto di cronaca, per il minore suicida il diritto di cronaca viene limitato esclusivamente in un’ottica di tutela di quei minori che acquisiscono la notizia.

Tutela, quest’ultima, che peraltro arretra di fronte all’esigenza di “individuazione delle responsabilità”. Un conto è l’informazione dettagliata che agevola l’identificazione del minore riportando particolari idonei soltanto a soddisfare le esigenze voyeuristiche di un certo pubblico. Diverso è quando l’approfondimento del fatto svela gravi colpe. Se non possono essere oggetto di una cronaca dettagliata le frequentazioni, i gusti, le sofferenze sentimentali di una sedicenne anoressica suicida, saranno invece di interesse pubblico i fatti che hanno portato un minore a togliersi la vita perché esasperato dalle vessazioni subite dai compagni di scuola nell’indifferenza dei professori, o dalle continue violenze familiari. Qui garantire il massimo livello di riservatezza finirebbe per giovare ben poco al minore suicida e troppo a chi è responsabile, magari anche penalmente, di fatti che hanno finito per sconvolgerne l’equilibrio psichico.

Ciò a maggior ragione se la morte avviene per cause diverse dal suicidio. A parte la mancanza di espliciti riferimenti sia nella Carta di Treviso che nel “Vademecum” del 1995 (che parlano soltanto di suicidio), non vi sono particolari motivi per impedire l’identificazione del minore morto, ad esempio, per un caso di “malasanità”. Adottare ogni accorgimento per scongiurare il rischio di identificazione di un bambino morto per una errata diagnosi medica, finirebbe per mettere in ombra i responsabili del fatto, i cui errori devono, al contrario, essere sottolineati per stimolare un costante monitoraggio pubblico sulla qualità dei servizi resi a tutela della salute.

Da ultimo, va segnalata la modifica apportata nel 2006 al testo della Carta di Treviso. Vengono sostanzialmente ribaditi i medesimi principi. Ma al par. 10 viene specificato che le norme "vanno applicate anche al giornalismo on line, multimediale e ad altre forme di comunicazione giornalistica che utilizzino innovativi strumenti tecnologici per i quali dovrà essere tenuta in considerazione la loro prolungata disponibilità nel tempo".

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