La censura a
Daniele Luttazzi
Nel 2001 Daniele Luttazzi, autore satirico molto noto al pubblico televisivo, conduce su Rai2 nella seconda serata di mercoledì Satyricon, un programma da lui stesso ideato, che si ispira al famoso David Letterman Show statunitense. La trasmissione registra subito un grande successo di pubblico, con uno share medio intorno al 20%.
Ben presto Luttazzi si attira le critiche soprattutto degli esponenti del centrodestra, che lo accusano di fare una Tv “pecoreccia”, alludendo alla puntata del 10 gennaio, in cui annusa le mutandine di Anna Falchi. Poi, in risposta alle critiche di un consigliere Rai che lo ha invitato a “mangiare la merda” per scendere ancora più in basso, gusta compiaciuto un dolce di cioccolato che riproduce in maniera straordinariamente realistica un escremento.
In realtà, ciò che preoccupa alcuni ambienti politici è quello che Luttazzi fa dire ai proprio ospiti in tutta libertà. Come accade con Marco Pannella, che non esita ad attaccare duramente la Chiesa per le sue posizioni oltranziste su droga, aborto e anticoncezionali. E con Flores D’Arcais, che critica aspramente il cardinale Ruini e Massimo D’Alema.
Ma la classica goccia che fa traboccare il vaso è la puntata del 14 marzo. Luttazzi invita Marco Travaglio a parlare del libro “L’odore dei soldi”, scritto insieme ad Elio Veltri, membro della Commissione Parlamentare Antimafia. Il contenuto del libro, che svela rapporti tra Silvio Berlusconi e ambienti mafiosi, è in gran parte tratto dagli atti di indagine delle Procure della Repubblica di Palermo e Caltanissetta, riassunti nella requisitoria del dott. Luca Tescaroli, pubblico ministero al processo d’appello per la strage di Capaci (sulla vicenda giudiziaria si veda Il caso Satyricon).
La puntata scatena reazioni pesantissime, che inducono i vertici Rai a sospendere il programma per una settimana. E l’11 aprile va in onda l’ultima puntata. Nonostante il grande successo di pubblico, Satyricon non viene confermato nella successiva stagione. Luttazzi scompare dai palinsesti televisivi, dopo essere stato citato nell’“editto bulgaro” (e subirà un altro allontanamento nel dicembre 2007, questa volta da La7; sul caso si veda l'articolo Luttazzi epurato da La7 per aver inventato il paradosso di Berlusconi).
La natura censoria dell’allontanamento di Luttazzi dalla Rai si ricava da diversi elementi. Innanzitutto, con l’intervista a Marco Travaglio, Luttazzi entra nel mirino di Berlusconi, tanto da essere menzionato nell’“editto bulgaro”. Poi, il programma non viene riproposto nella stagione successiva nonostante l’ampio gradimento del pubblico. Infine, la contraddizione insita nella circostanza che il programma non fu sospeso dopo la puntata in cui Luttazzi mangiò il finto escremento, quando per l’occasione avrebbe potuto invocarsi l’art. 15 L. n. 47/1948, espressamente richiamato dall’art. 30, comma 3°, L. n. 223/1990 (“legge Mammì”), che punisce la diffusione di “particolari impressionanti o raccapriccianti” che possano “turbare il comune sentimento della morale”. La sospensione fu invece decretata a seguito dell’intervista a Marco Travaglio, nonostante questi avesse raccontato fatti di indubbio interesse pubblico nel legittimo esercizio del diritto di critica, come ha riconosciuto il Tribunale di Roma con sentenza 14 gennaio 2006 (sulla questione si veda Il caso Satyricon).
La censura a Daniele Luttazzi presenta aspetti particolari. Il suo programma fu subissato di critiche. Ma a parte la breve sospensione per la puntata con Travaglio, finì il suo regolare corso. Non vi fu alcuna soppressione, né imposizioni in itinere finalizzate ad un controllo preventivo sul contenuto del programma. Semplicemente il programma non fu confermato nella stagione successiva, nonostante il grande successo di pubblico. E a Luttazzi non fu più affidata alcuna conduzione.
Di conseguenza, non si può equiparare il caso di Luttazzi agli altri analizzati in questa sede. Con Biagi, Santoro, Guzzanti, Rossi, i vertici Rai interruppero una programmazione già avviata, violando palesemente un contratto stipulato con il conduttore o l’artista. Con Luttazzi, invece, esaurito il ciclo di trasmissioni affidatogli (quindi estinti gli obblighi derivanti dal contratto), si è semplicemente azzerato il suo potere contrattuale, negandogli di fatto la possibilità che la sua offerta professionale venisse presa in considerazione dai vertici Rai. Luttazzi è stato vittima di qualcosa di molto simile al maccartismo, quando i lavori del professionista di talento venivano sistematicamente rifiutati: ufficialmente perché non piacevano, in realtà perché il suo nome appariva nella famigerata “lista nera”, stilata da ambienti governativi Usa e in possesso di ogni ente, organo di informazione, produttore cinematografico, studio televisivo.
Il problema principale che pone la fattispecie deriva dal fatto che mentre ogni contratto, una volta stipulato, deve essere sempre rispettato, nessuna norma dell’ordinamento (salvo casi assolutamente eccezionali) impone ad un soggetto di stipularlo, se non si è mai obbligato in tal senso. Di conseguenza, nessun giudice potrebbe imporre alla Rai, ad esempio, di scritturare Luttazzi.
Naturalmente, ciò non significa che l’ordinamento possa tollerare una censura di questo tipo. L’assunzione di un giornalista o la scritturazione di un artista non può essere condizionata al gradimento di soggetti esterni alla struttura Rai, che fa servizio pubblico. Un professionista che si vede escluso da qualsiasi possibilità di contrattare le sue prestazioni lavorative perché inviso a chi ha di fatto il potere di imporre dall’esterno un veto sulla sua assunzione, deve poter trovare adeguato ristoro nelle sedi giudiziarie. Ma sulla base di quale norma?
L’art. 8 L. n. 300/1970 (“Statuto dei Lavoratori”) fa “divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione […] di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”. Il fine della norma è evitare che ad un soggetto professionalmente capace sia negato l’accesso al lavoro per via delle proprie convinzioni, quindi in violazione della libertà di pensiero, o comunque per ragioni extraprofessionali.
Ma il divieto di “effettuare indagini” è solo il mezzo per attuare quel fine. Significa che la tutela opera anche quando la discriminazione non è preceduta da alcuna indagine, perché effettuata ai danni di un professionista già noto. Ed è proprio ciò che è accaduto a Luttazzi, come a tutti coloro la cui professionalità non viene presa in considerazione perché ritenuti “scomodi” da chi ha di fatto il potere di ottenerne la messa al bando.
E la circostanza che le norme contenute nello Statuto dei Lavoratori si applichino al personale dipendente non impedisce di estendere la tutela prevista dall’art. 8 anche a chi in caso di assunzione non venisse inquadrato in un rapporto di lavoro subordinato, come generalmente accade per gli artisti scritturati per un programma Rai. Quella offerta dall’art. 8 è una tutela generale, diretta espressione della libertà di pensiero garantita dall’art. 21 Cost.
Da quanto detto deriva che il dirigente Rai il quale, nell’assecondare pressioni provenienti da soggetti che non devono avere nulla a che vedere con la gestione Rai (come i politici), finisce per scartare un’offerta professionale perché i contenuti proposti dal professionista sono sgraditi a quei soggetti, realizza un fatto illecito insieme a questi ultimi, i quali in sostanza sono i “committenti”. Un fatto illecito che li obbliga al risarcimento dei danni.
Ma il problema principale è nella prova del fatto illecito. E’ più facile dimostrare di essere stati cacciati, che non di essere stati discriminati nell’assunzione. Gli ostacoli che i vertici Rai pongono alla esplicazione della attività lavorativa stabilita nel contratto con il professionista sono tangibili; e il tenerlo inattivo in vigenza di contratto senza attribuirgli compiti, o attribuendoli a condizioni inaccettabili, è una chiara violazione. Invece, quando il professionista avvia contatti con dirigenti Rai offrendo una prestazione lavorativa, quelli possono anche permettersi di non fornire alcuna risposta, o di fornirne di vaghe, non esistendo un rapporto contrattuale che li obbliga ad un comportamento attivo.
Ma anche in questa fase vanno valutati, anche se più intensamente, i già visti “elementi presuntivi” che segnalano la presenza della censura (comprese le eventuali dichiarazioni di politici e dirigenti Rai). Uno in particolare. In genere un lavoro viene a priori scartato perché non ritenuto interessante o adatto al pubblico. E’ chiaro, però, che qui gioca un ruolo fondamentale il riconosciuto valore del professionista. Per fare un esempio (ma ce ne sarebbero tanti), sarebbe molto sospetto che i responsabili della programmazione scartassero il progetto di un programma di satira politica di Dario Fo, dato il suo valore e l’indubbio interesse pubblico che soddisferebbe.
E tali comportamenti sospetti vanno necessariamente collegati anche alle dichiarazioni dei dirigenti Rai. Basti pensare a quella, reiterata, di Fabrizio del Noce, direttore di Rai1, secondo cui “su Rai1 non si fa satira politica”. Desta preoccupazione la naturalezza con cui Del Noce rende una simile dichiarazione. Ma quello che preoccupa veramente è che nessuno tragga le dovute conseguenze di fronte ad una palese e rivendicata violazione, sia dell’art. 21 che dell’art. 33 Cost., da parte di chi ha la responsabilità di un servizio pubblico; e che dovrebbe invece porsi come garante e stimolatore delle libertà enunciate in quelle norme.
Diversa è invece la natura dell'allontanamento che Luttazzi subirà da La7 nel dicembre 2007 (sulla questione si veda l'articolo Luttazzi epurato da La7 per aver inventato il paradosso di Berlusconi).