Intercettazioni di Prodi:
Panorama rivela
segreti di ufficio
Bologna, 3 settembre 2008
(avv. Antonello Tomanelli)
Tenta di far assegnare al Rizzoli di Bologna, istituto stimato in tutto il mondo e fiore all’occhiello dell’ortopedia italiana, dove è primario il consuocero, finanziamenti pubblici per ricerche scientifiche. Si interroga sulla possibilità di agevolare fiscalmente la fondazione scientifica di un amico. Vuole aiutare il nipote Luca a liberarsi di un socio non più gradito pensando di farne rilevare la quota da terzi. Per “Panorama” (n. 36 del 2008) sarebbero questi gli “affari” gestiti da Romano Prodi durante la sua ultima permanenza a Palazzo Chigi, risultanti da alcune intercettazioni disposte dalla Procura di Bolzano e inviate ai colleghi di Roma per ragioni di competenza.
Prodi si dà da fare, è vero, ma nel rispetto delle regole, come si deduce leggendo quelle intercettazioni. Tant’è che il consuocero non avrà mai quei finanziamenti, né l’amico otterrà l’inserimento della propria fondazione nella lista di quelle fiscalmente agevolate. Dunque, non vi è nemmeno l’ombra di un reato come l’abuso d’ufficio, che presuppone un comportamento posto in essere “in violazione di norme di legge o di regolamento” (art. 323 del codice penale). Nel caso che riguarda il nipote addirittura si mostra disposto a dargli dei soldi per aiutarlo ad acquisire la quota detenuta da altro socio. Nessuna faccenda sporca, nessuna rilevanza penale.
Ma non è detto che il penalmente irrilevante non sia di interesse pubblico. Siamo in quella “zona grigia” compresa tra il comportamento del titolare di pubbliche e delicate funzioni che costituisce reato e il cosiddetto fatto privato. Una zona grigia che può toccare soltanto un personaggio pubblico e che attiene al modo in cui questi strumentalizza la funzione pubblica affidatagli. Esigenze di trasparenza ne giustificano la divulgazione, sussistendo un interesse pubblico. Sotto questo aspetto, il servizio di “Panorama” non presenta profili di illegittimità.
Ma solo sotto questo aspetto. Perché il servizio di Gianluigi Nuzzi, come ben spiega Marco Travaglio nel suo articolo apparso su “L’Unità” del 31 agosto, rappresenta una clamorosa violazione dell’art. 326 del codice penale, che punisce “il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio le quali debbano rimanere segrete”. Qui l’articolista risponde a titolo di concorso nel reato commesso da chi ha fatto materialmente uscire quelle intercettazioni dagli uffici della Procura di Roma, ossia da quel “fascicolo protetto in un armadio blindato… ovviamente coperto dal massimo riserbo”, come precisa lo stesso articolista. Precisazione alquanto ingenua, perché suona come una confessione circa la consapevolezza della natura segreta di quelle intercettazioni.
La segretezza di quelle intercettazioni (quindi la rilevanza penale della loro divulgazione) si ricava dall’art. 329 del codice di procedura penale. “Gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza”, dice la norma. Nel caso delle intercettazioni, l’imputato ne ha conoscenza quando vengono depositate presso la segreteria del pubblico ministero, a disposizione di lui e del difensore. Solo da quel momento quelle intercettazioni possono essere pubblicate sui giornali, beninteso qualora la loro diffusione soddisfi un interesse pubblico. Se vengono pubblicate prima, si viola l’obbligo del segreto e scatta il reato di rivelazione di segreti di ufficio.
A ben vedere, il divieto di pubblicare atti coperti da segreto risponde ad una precisa logica. Di regola l’indagato non sa di essere intercettato, e le intercettazioni possono essere dal pm (sempre previa autorizzazione del gip) prorogate, se viene reputato utile. L’improvvisa pubblicazione dei verbali mette in allarme l’indagato, che così si guarderà bene dal parlare spontaneamente al telefono. Così, la preventiva pubblicazione delle intercettazioni impedisce che l’azione investigativa del pm spieghi appieno le proprie potenzialità. E’ normale, quindi, che l’interesse (pubblico) ad un’azione penale efficace debba prevalere sull’interesse (pubblico) alla conoscenza di quelle intercettazioni.
Anche perché, giornalisticamente parlando, chi pubblica intercettazioni segrete non fornisce una notizia. Meglio, fornisce una notizia incompleta, perché nel vanificare l’azione investigativa del pm impedisce l’accertamento della verità. Quella che viene fornita alla collettività è quindi una verità parziale, priva di quei fatti che proprio la fuga di notizie ha impedito che emergessero.
Invece, dal momento in cui le intercettazioni vengono depositate a disposizione dell’indagato, l’azione investigativa del pm non può più essere inquinata, perché ha espresso tutte le proprie potenzialità. Non vi è più alcuna ragione per nascondere la notizia, che qui è completa in ogni suo elemento. Con la pubblicazione il giornalista rispetta appieno il requisito della verità, poiché dalle intercettazioni, essendo concluse, non emergeranno ulteriori fatti.
In considerazione di quanto detto, vietare la pubblicazione di notizie anche se non più coperte da segreto, come l’attuale maggioranza si appresterebbe a fare, suona davvero paradossale. Né può valere l’argomentazione della tutela della riservatezza (comunemente denominata privacy). E’ vero che secondo l’art. 2 Cost. “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, e che tra tali diritti viene unanimemente collocato il diritto alla riservatezza. Ma il diritto del singolo alla riservatezza cede di fronte al diritto della collettività all’informazione (art. 21 Cost.) quando un fatto è di interesse pubblico, poiché l’interesse generale prevale sempre sull’interesse particolare. Con una legge come quella preannunciata si arriverebbe ad un capovolgimento di valori, dove l’interesse del singolo prevale su quello generale. Sarebbe come emanare una legge che di fatto impedisce il ritiro della patente a chi provoca un incidente mortale in stato di ebbrezza, per tutelare la libertà di circolazione che l’art. 16 Cost. comunque garantisce a chiunque.