Berlusconi scrive a Schifani
diffamando pm
e giudici di Milano
Bologna, 17 giugno 2008
(avv. Antonello Tomanelli)
Silvio Berlusconi prende carta e penna. Scrive al presidente del Senato Schifani una lettera per motivare la sua decisione di creare una normativa che introduce l’immunità dai processi penali per le alte cariche dello Stato. Una normativa che sospenderebbe il processo che lo vede imputato davanti al Tribunale di Milano, insieme all’avvocato inglese e amico David Mills, per il grave reato di corruzione in atti giudiziari.
A parte la gaffe che traspare dal testo della lettera, laddove rende in sostanza palese il nesso di causalità tra la celebrazione di quel processo e il provvedimento legislativo, vanno sottolineate le dure critiche che il premier riserva al pm incaricato delle indagini e ai magistrati chiamati a giudicarlo. Riferendosi al pm che ha determinato il rinvio a giudizio, parla di “tentativo di un sostituto procuratore milanese di utilizzare la giustizia a fini mediatici e politici”. Ma ha parole dure anche per il tribunale che lo deve giudicare, “anch’esso politicizzato e supinamente adagiato sulla tesi accusatoria”. Annuncia di voler ricusare il presidente del tribunale che lo sta processando e parla di “provvedimento di legge a favore di tutta la collettività” e di “norma di civiltà giuridica”.
Non è dato sapere se Berlusconi creda davvero a quello che ha scritto. E’ una questione che va affrontata da chi è esperto in branche diverse dal Diritto. Qui vanno invece analizzate le dichiarazioni di Berlusconi, per vedere se possono rientrare nel diritto di critica, quindi tutelate ex art. 21 Cost., tenendo conto della particolarità del soggetto destinatario della critica.
Generalmente la giurisprudenza restringe alquanto l’area di legittimità della critica, quando è rivolta ai magistrati. Per mero spirito corporativo, penserà qualcuno. In realtà, è per la particolare natura del potere giudiziario, che diversamente dai poteri legislativo ed esecutivo, non è un’attività discrezionale, ma vincolata alle scelte operate da Parlamento e Governo attraverso l’emanazione delle norme che ogni magistrato dovrà applicare.
Ma il punto fondamentale è un altro. Nella sua funzione tipica di applicazione della legge, il magistrato reprime i comportamenti umani che contrastano con l’ordinamento. Lo fa attraverso un lungo e complesso iter, che accerta la verità nel rispetto del principio del contraddittorio. Questo iter culmina nella emanazione di un provvedimento giudiziario, basata su quelle argomentazioni logiche e giuridiche che costituiscono la motivazione. L’attività giudiziaria, quindi, rappresenta la forma più esemplare di critica, che il magistrato rivolge nei riguardi di un comportamento umano.
E’ chiaro, quindi, che la libertà di critica, quando ha come destinatari i magistrati, subisce una compressione. Nel senso che in ogni critica ad un magistrato (ovviamente per motivi legati alle sue funzioni) il concetto di argomentazione dovrà essere tenuto nel massimo conto. Ciò a maggior ragione quando la critica lo collochi al di fuori di quanto gli impone la Costituzione.
Ora, dire che un pubblico ministero è “politicizzato” e che “utilizza la giustizia a fini mediatici e politici”, significa addebitare al suo comportamento finalità opposte a quelle che il suo ruolo costituzionale gli impone prescrivendogli “l’obbligo di esercitare l’azione penale” (art. 112 Cost.). L’uso “politico” della giustizia è esattamente ciò che la Costituzione ha voluto scongiurare ideando un sistema che escludesse qualsiasi interferenza degli organi politici sull’operato della magistratura. Sotto questo aspetto, attribuire a un pm la paternità di “indagini politiche” è ancor più offensivo che dare del ladro a un ministro.
Ancor peggio quando simili critiche vengono formulate nei riguardi dei giudici chiamati ad emettere sentenza, che non portano avanti un’accusa (come fa il pm) ma accertano la verità e decidono in base alle risultanze di quel contraddittorio di cui il pm è “parte”. Dare del “politicizzato” a un magistrato giudicante (tra l’altro ad opera dell’imputato stesso) significa accusarlo di assumere un ruolo estraneo ad un sistema democratico. Un ruolo che porterebbe il magistrato ad amministrare la giustizia non “in nome del popolo”, come gli impone l’art. 101, comma 1°, Cost., ma a beneficio di una fazione politica, in palese contrasto con il comma 2°, secondo cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
Stessa cosa per quanto riguarda l’indicare il magistrato giudicante come “supinamente adagiato sulla tesi accusatoria”.
Accuse così gravi, basate su apodittiche affermazioni, non possono rientrare nel diritto di critica. Sono prive di argomentazioni, quindi in violazione del requisito della continenza formale. Non sono suffragate da alcun elemento obiettivo, quindi in violazione del requisito della verità. Ed essendo, per i motivi detti, lesive della reputazione, integrano gli estremi del reato di diffamazione.