Intercettazioni:
solo fumo negli occhi
la tutela della privacy

Bologna, 16 giugno 2008

(avv. Antonello Tomanelli)

La tutela della privacy dei cittadini. E’ questo l’elemento su cui ha fatto leva l’ampio battage che ha preceduto la decisione del governo di mettere pesantemente mano alla normativa sulle intercettazioni. Vengono riferiti dati allarmanti sulle utenze che la magistratura metterebbe ogni anno sotto controllo e sui relativi costi. Dati peraltro smentiti da più parti (in proposito si veda “Blackout Giustizia”, l’intervista di Peter Gomez al magistrato Bruno Tinti pubblicata su “L’Espresso”).

Per analizzare la questione, vanno distinte due fasi: quella della acquisizione delle conversazioni da parte dell’autorità giudiziaria e quella della loro pubblicazione da parte degli organi di informazione.

Cominciamo dalla prima. Nel momento in cui l’intercettazione viene eseguita (e le relative conversazioni ascoltate dagli inquirenti) la privacy entra in ballo per due tipologie di soggetti. Vi è, da un lato, la privacy di colui la cui utenza è messa sotto controllo perché il giudice ha ravvisato “gravi indizi di reato” (art. 267 del codice di procedura penale) e necessita di acquisire prove. Dall’altro, quella del parente, dell’amico, del conoscente che parla con l’intercettato.

Parlare di tutela della privacy di chi, indagato per gravi reati, viene intercettato proprio per rendere possibile la repressione della sua condotta è, francamente, cosa che nessuna persona seria si sentirebbe di sostenere. Qui l’interesse del singolo individuo a che le proprie conversazioni non siano ascoltate dagli inquirenti cede di fronte all’interesse generale a che quelle stesse conversazioni possano essere usate come prova dei reati commessi.

Sotto questo aspetto, stabilire che le intercettazioni possono eseguirsi soltanto per il perseguimento di reati che prevedono una pena massima superiore ai dieci anni (ora il limite è di cinque anni), significherebbe far prevalere sulle esigenze di giustizia e di lotta alla criminalità la privacy di chi è seriamente indiziato di reati come la violenza sessuale, l’estorsione, l’usura, la turbata libertà degli incanti, la truffa per conseguire erogazioni pubbliche, l’associazione per delinquere. E anche la corruzione, se questo reato non venisse espressamente escluso dai nuovi limiti. Reati che indubbiamente creano allarme sociale. Il tutto difficilmente coniugabile con quanto perentoriamente dispone l’art. 112 Cost.: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”.

Nemmeno le ragioni della privacy dell’amico o del conoscente dell’intercettato, le cui conversazioni vengano involontariamente ascoltate dagli inquirenti, possono ritenersi prevalenti sull’esigenza di accertamento dei reati. Non si può menomare l’azione penale per tutelare la privacy di coloro che, loro malgrado, finiscono per essere ascoltati a causa del loro rapporto personale con l’intercettato. Sarebbe come bloccare la vendita di medicinali nella logica di evitare che possano essere assunti dai bambini che convivono con chi ne fa uso.

L’altra questione riguarda la violazione della privacy (meglio, della riservatezza) di chi vede pubblicate le proprie conversazioni dagli organi di informazione. Qui il rapporto dell’intercettato non è più con gli organi giudiziari titolari di una specifica indagine, ma con un numero indeterminato di persone, ossia la collettività.

Ebbene, unico parametro di valutazione della legittimità della pubblicazione delle intercettazioni è l’interesse pubblico. Lo dicono i trent’anni e più di vita del diritto alla riservatezza, riconosciuto dalla stessa giurisprudenza fin dagli anni ’70. Lo dice l’art. 137, comma 3°, D.Lgs. n. 196/2003 (“Codice della Privacy”), che consente al giornalista la diffusione di dati personali nei limiti della “essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico”, così come l’art. 6 del codice di deontologia che ribadisce il principio di essenzialità dell’informazione (sulla questione si veda il diritto alla riservatezza).

Un interesse pubblico che legittima la pubblicazione delle intercettazioni non appena vengono depositate a disposizione dei difensori delle parti, ossia non appena cade il segreto istruttorio. A ben vedere, il segreto istruttorio (che dura fino a quando l’indagato non ha diretta conoscenza delle indagini) reca in sé un interesse pubblico: quello del corretto e proficuo svolgimento delle indagini, che per un tempo ragionevolmente limitato è giusto che prevalga sull’interesse della collettività ad acquisire la notizia. Notizia che, a ben vedere, non è ancora completa, proprio perché, finché vige il segreto istruttorio, l’indagine non ha ancora espresso appieno il proprio potenziale nell’accertamento dei fatti. Ma dal momento in cui cessa il segreto istruttorio, quei fatti diventano notizia, facendo riemergere l’interesse della collettività alla sua acquisizione.

Se quindi ha un senso vietare la pubblicazione delle intercettazioni durante il segreto istruttorio, qualsiasi tentativo di estendere quel divieto per tutto il periodo delle indagini preliminari avrebbe soltanto lo scopo di neutralizzare il principio di immediatezza della notizia: impedire che la collettività sia informata in tempo reale, in nome di una privacy che invece va sempre sacrificata in presenza del diritto della collettività ad essere informata su fatti di interesse pubblico.

Ma la privacy è ovviamente salva per tutto ciò che non è di interesse pubblico. Se nella stessa intercettazione un sindaco parla di somme di denaro intascate per interferire su appalti pubblici, ma anche di quelle pagate per ottenere i favori sessuali di una prostituta, la pubblicazione di quest’ultima conversazione violerà il suo diritto alla riservatezza. E anche quello della prostituta, se è identificabile. Così come il conoscente che disgraziatamente parla col sindaco, del più e del meno, senza minimamente immaginare con chi ha a che fare. Con la conseguenza che sindaco, prostituta, conoscente troverebbero adeguato ristoro nelle sedi giudiziarie. In altre parole, il nostro ordinamento già tutela la privacy.

Così come le norme del codice della strada tutelano il pedone. Chi investe un pedone per essere passato col rosso o in stato di ebbrezza, sarà condannato a risarcire ogni danno. Ma di fronte alla piaga degli incidenti stradali, nessuno avrebbe il coraggio di proporre il divieto di produzione e di commercializzazione delle autovetture nell’ottica di una maggior tutela della vita e dell’integrità fisica dei pedoni.