Chi tocca le Camere muore:
la Cassazione condanna
lo scoop delle Iene
Bologna, 12 giugno 2008
(avv. Antonello Tomanelli)
Che un terzo del Parlamento faccia uso abituale di sostanze stupefacenti è una cosa che non si può dire, anche se è vera. Rischia in sostanza di diventare questo il messaggio contenuto nella sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna (a una pena pecuniaria) delle “Iene” Davide Parenti e Matteo Viviani per violazione della legge sulla privacy.
I fatti sono noti. Le Iene si appostano all’uscita di Camera e Senato per intervistare un buon numero di parlamentari. Ogni intervista è sistematicamente interrotta dall’intervento di una truccatrice che asciuga la fronte dell’intervistato. Il parlamentare non sa che con quel gesto le Iene stanno eseguendo il drug wipe, un test che rivela l’assunzione di stupefacenti nelle ultime 36 ore, usato da diverse polizie europee a fini di prevenzione degli incidenti stradali.
Attraverso i consueti canali informativi, il 9 ottobre 2006 le Iene annunciano il risultato, che è sorprendente. Ben 16 parlamentari su 50 (il 32%) sono positivi al test, di cui 12 alla cannabis e 4 alla cocaina. Ma non fanno in tempo a trasmettere il servizio nella puntata serale. Con una solerzia senza precedenti, il Garante della Privacy blocca tutto, nonostante l’anno prima ci abbia messo tre mesi per riscontrare la violazione della privacy di Lapo Elkann, massacrato agli occhi del pubblico per essere finito in overdose da cocaina dopo una notte trascorsa in casa di amici trans (sulla questione si veda il caso Elkann).
Ora è terminata la causa penale. Intendiamoci, la decisione è giusta. Ma sicuramente non per i motivi esposti in sentenza, che rischiano di trasformare i rappresentanti del popolo in un gruppo di intoccabili per definizione. Vediamo perché.
La difesa delle Iene aveva sostenuto che non poteva esserci violazione della privacy perché il servizio forniva un risultato espresso in percentuale sul campione selezionato, garantendo l’anonimato dei parlamentari. Nessuna identificazione dei parlamentari, quindi nessun dato personale portato a conoscenza.
Ma il ragionamento è errato perché non tiene conto delle varie fasi in cui si articola il “trattamento” di un dato personale, come si ricava dall’art. 4, comma 1° lett. a), codice della privacy. Sinteticamente, c’è la raccolta (il sudore appreso dal tampone), la registrazione (il sudore introdotto nell’apparecchio rilevatore delle sostanze stupefacenti), la consultazione (il rilevamento eventuale delle tracce di sostanze stupefacenti), infine l’elaborazione (il calcolo della percentuale di rilevamenti con esito positivo).
Poco importa se nel caso delle Iene il dato personale non arrivi mai alla diffusione. In realtà, il dato personale esiste ed è rilevante per il codice della privacy dal momento in cui viene prelevato il sudore dalla fronte del parlamentare al momento in cui il campione biologico viene distrutto, anche se ciò avviene immediatamente dopo il rilevamento di tracce di stupefacenti (ossia subito dopo la “consultazione”). Quindi, durante le fasi della “raccolta”, della “registrazione” e della “consultazione” il dato è personale, quindi tutelato dalla normativa sulla privacy. Per la precisione, un dato personale “(super)sensibile”, poiché di tipo sanitario, ossia idoneo a rilevare uno stato di salute.
Bisogna però considerare la posizione privilegiata in cui la legge colloca il giornalista, che informa il pubblico. Il giornalista non sempre è tenuto a rendere l’informativa di cui all’art. 13 del Codice della Privacy. Secondo l’art. 2 del codice di deontologia, al momento della raccolta dei dati personali il giornalista deve indicarne la finalità, “salvo che ciò […] renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa”. Ora, che le Iene esercitassero una funzione informativa non può esserci alcun dubbio, visto l’interesse pubblico a conoscere se e in che percentuale i parlamentari da noi eletti facciano uso di sostanze stupefacenti. E nessun dubbio può esserci pure sull’impossibilità di realizzare il servizio (o, quantomeno, sull’attendibilità del campione selezionato) se le Iene avessero reso noto ai parlamentari la finalità perseguita attraverso la finta intervista.
Ma una violazione c’è. E’ di quella parte dell’art. 2 del codice di deontologia secondo cui il giornalista, nel raccogliere dati personali, “evita artifici”. In effetti, è difficile negare che il prelevamento del sudore dalla fronte del parlamentare, effettuato con la scusa di farla asciugare dalla sedicente truccatrice, costituisca “artificio”. Qui le Iene hanno adottato un metodo indubbiamente invasivo della persona. Ogni metodo di raccolta di dati personali basato su un inganno che si concreta in una invasione della sfera privata va considerato “artificio” (sulla questione si veda il trattamento dei dati personali nell’attività giornalistica). Ed è a questo che pensa la Corte di Cassazione quando nella sentenza parla di “comportamento ingannevole e fraudolento” da parte delle Iene.
Tuttavia, nel motivare la condanna, la Corte di Cassazione dice che il test antidroga ha fatto sì che “tutti i parlamentari potessero essere indiscriminatamente sospettati di assumere stupefacenti con la conseguenza che ogni membro del Senato o della Camera dei Deputati, nonché l’istituzione parlamentare, ha subìto nocumento alla sua immagine pubblica ed alla sua onorabilità”.
Ebbene, l’errore è proprio qui. L’unica violazione commessa dalle Iene riguarda il momento della raccolta del dato personale, effettuata dalla sedicente truccatrice per mezzo del tampone. Fare leva su un presunto danno alla onorabilità dei parlamentari significa, invece, valorizzare un’attività di trattamento di dati personali qui del tutto assente, ossia la diffusione, essendo stato pubblicato unicamente un dato statistico, che rende impossibile l’identificazione di qualsiasi parlamentare. Un’attività di diffusione che temporalmente si colloca, nell’iter del trattamento, proprio agli antipodi dell’attività di raccolta, che costituisce l’unica violazione commessa dalle Iene e che mai potrebbe di per sé ledere l’onorabilità di chicchessia.
Se quindi la decisione finale va condivisa, le motivazioni in parte addotte rischiano di legittimare in futuro una sorta di impermeabilità della funzione del parlamentare. Nel nome della privacy e dell’onorabilità, si potrebbe liquidare come indebita ingerenza qualsiasi tentativo di relazionare la collettività a fatti in astratto idonei a ledere il decoro e la reputazione di chi ricopre importanti cariche pubbliche, ma la cui divulgazione è pienamente tutelata dal diritto di cronaca, riguardando circostanze di indubbio interesse pubblico.