Governo sulle intercettazioni:
quando la censura
diventa Sistema
Bologna, 9 giugno 2008
(avv. Antonello Tomanelli)
Il governo Berlusconi si prepara ad emanare il provvedimento più controverso della storia della Repubblica. Un provvedimento che vieta tassativamente all’autorità giudiziaria di raccogliere prove attraverso le intercettazioni, salvo che per i delitti di mafia e di terrorismo. In pratica, reati come la corruzione, la concussione, l’estorsione, l’usura dilagheranno.
Che il governo voglia con questo provvedimento tutelare anche la rapacità di chi ricopre cariche pubbliche per tornaconto personale è fatto acquisito. Tuttavia, l’attenzione va rivolta ad un altro aspetto del provvedimento: il divieto assoluto di pubblicazione degli atti di indagine, pena la reclusione fino a cinque anni per il giornalista e multe milionarie agli editori.
Il provvedimento annunciato ricalca, rendendolo più severo, il disegno di legge Mastella, approvato dalla Camera dei Deputati nell’aprile 2007 e giacente al Senato. A riguardo si consiglia la lettura dell’articolo obbrobri e contraddizioni nel disegno di legge sulle intercettazioni.
Ora l’attenzione va focalizzata sui rimedi da opporre all’annunciato provvedimento.
Il provvedimento, vietando la pubblicazione degli atti per tutto il periodo delle indagini preliminari, produce un effetto incompatibile con il concetto di democrazia. Considerando che le indagini preliminari posso durare anche due anni, viene affossato il principio di immediatezza della notizia, che vuole la collettività, in quanto soggetto sovrano, informata in tempo reale su ogni accadimento di interesse pubblico.
Siamo di fronte ad un provvedimento legislativo palesemente incostituzionale. Un conto è punire ogni fuga di notizie che possa compromettere lo svolgimento delle indagini. A questo ci pensa il già esistente segreto istruttorio. Ma impedire indiscriminatamente il flusso di informazioni su fatti di interesse pubblico significa predisporre una censura generalizzata. E’ quindi una legge che si pone in aperto contrasto con l’art. 21, comma 2°, Cost., secondo cui “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
Il primo tribunale che dovesse imbattersi nella applicazione di questa legge contro un giornalista o un editore, solleverà la questione di costituzionalità di fronte alla Corte Costituzionale, che non esiterà a dichiararla in gran parte illegittima.
Tuttavia, in considerazione del tipo di governo attualmente in carica, la legge potrebbe essere riemanata. Un comportamento istituzionalmente inaccettabile, certo. Ma non dovrebbe sorprendere, visto quanto già accaduto con il sistema radiotelevisivo, disciplinato negli ultimi 15 anni sfidando ben due pronunce della Corte Costituzionale (sul caso si veda l’articolo decreto ‘salva Rete4’: Berlusconi spernacchia l’Unione Europea).
Qui l’unico modo per tutelare la libertà di informazione in maniera diretta e immediata è rilevare il contrasto tra tale legge e il diritto comunitario, al quale le leggi degli Stati dell’Unione Europea debbono sempre adeguarsi. Un contrasto rilevabile da qualsiasi giudice italiano, che ha il potere, ormai universalmente riconosciuto, di disapplicare la legge statale, senza dover attendere l’intervento della Corte Costituzionale. In pratica, la legge resterebbe formalmente in vigore, ma non potrebbe avere effetti nel caso concreto sottoposto al giudice.
E il contrasto tra una tale legge e il diritto comunitario è fuori discussione. Norma fondamentale è l’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (nota con l’acronimo CEDU), siglata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con legge n. 848/1955. La norma, sancendo il principio della libertà di espressione, include in esso “la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche”. E’ evidente come la legge annunciata impedisca totalmente non solo al giornalista di comunicare informazioni, ma anche al cittadino di riceverle.
E’ poi il secondo comma a limitare l’eventuale intervento dei pubblici poteri, stabilendo che “L’esercizio di queste libertà […] può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.
Quelle elencate nel secondo comma costituiscono evidentemente eccezioni al principio della libertà di informazione. Riguardano casi in cui la libera circolazione delle notizie potrebbe nuocere allo stesso funzionamento dello stato democratico, perché lederebbe suoi interessi vitali. Ma si tratta di eccezioni già operanti nel nostro ordinamento. Basti pensare alle norme che prevedono il segreto di Stato, il segreto d’ufficio e il segreto istruttorio, nonché alle norme penali che puniscono la diffamazione. Qualsiasi legge che prevedesse ipotesi aggiuntive si porrebbe in contrasto con l’art. 10 della Convenzione, perché pregiudicherebbe la libertà di informazione.
E non c’è dubbio che la legge che questo governo si appresta ad emanare introduce un regime giuridico dove il divieto di circolazione delle notizie costituisce la regola. Tutto il contrario, quindi, di quello che la Convenzione si proponeva più di mezzo secolo fa. Una Convenzione resa esecutiva in Italia con una legge ordinaria (L. n. 848/1955), alla quale però, secondo i principi che regolano la gerarchia delle fonti del Diritto, non potrebbe mai seguire una legge che ne metta in discussione i principi, proprio perché la legge del 1955 ha introdotto nell’ordinamento italiano un atto di tipo sovranazionale, come tale dotato di un’efficacia superiore a quella di qualsiasi legge statale. Questo è quanto stabilito da numerose sentenze della Corte di Cassazione, che hanno attribuito alle norme della Convenzione una “immediata precettività” nel nostro Paese e il loro essere “insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria”.
Un’efficacia, peraltro, ulteriormente rafforzata da quanto previsto dallo stesso Trattato di Maastricht del 1992, il cui art. 6 stabilisce che “L’Unione Europea rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […] in quanto principi generali del diritto comunitario”.
Da considerare, poi, le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che in alcuni casi ha ritenuto prevalente il diritto all’informazione addirittura sulle norme che puniscono la violazione del segreto istruttorio. Basti pensare alla recente sentenza (7 giugno 2007) che ha condannato la Francia per aver punito due giornalisti che avevano violato il segreto istruttorio pubblicando un libro sul sistema di intercettazioni illegali adottato in Francia durante la presidenza Mitterand, ma i cui contenuti erano di indubbio interesse pubblico.
Dati questi presupposti, solo un gruppo di sprovveduti, arroganti e ignoranti, potrebbe arrivare ad approvare l’annunciato provvedimento legislativo.