Caso Barnard (parte prima):
quando i bermuda
diventano dato personale
Bologna, 2 giugno 2008
(avv. Antonello Tomanelli)
Un paio di bermuda celesti con bande laterali bianche. E’ questo l’elemento che ha indotto il Tribunale civile di Roma a condannare Paolo Barnard, Milena Gabanelli e la Rai al risarcimento dei danni cagionati al dott. A.N. per violazione del diritto alla riservatezza.
Quei bermuda il dott. A.N., informatore scientifico, li indossava in una esclusiva spiaggia della Sardegna, messa gratuitamente a disposizione dei medici invitati dalle aziende farmaceutiche ad un congresso di neuropsichiatria infantile che si teneva nei pressi. Li indossava, conversando con Barnard insieme ad altri due colleghi, senza sapere che il giornalista aveva con sé una telecamera nascosta e che stava preparando un servizio sullo scottante tema del comparaggio farmaceutico, quella odiosa e illegale prassi tipicamente italiana che vede le case farmaceutiche stimolare i medici a prescrivere i propri farmaci con regalie varie e soggiorni extralusso. Servizio andato in onda durante la puntata di “Report” del 11.10.2001 intitolata “Il Marketing del farmaco”, e replicata nel febbraio 2003.
La telecamera è puntata verso il basso e non inquadra mai alcun volto. Barnard si spaccia per turista e cerca risposte. Un informatore scientifico ci va pesante e parla candidamente di medici pagati dalle case farmaceutiche. Per solo pochi istanti appare A.N. (meglio: i bermuda indossati da A.N., poiché la telecamera inquadra solo gli arti inferiori) che interviene solo per dire ironicamente che lui e i suoi colleghi informatori hanno sbagliato tutto nella vita, perché dovevano fare i medici, visto il trattamento principesco a questi riservato dalle case farmaceutiche. E quando Barnard sottolinea scherzosamente che ora gli informatori sono in spiaggia e i medici al congresso, A.N. risponde che i medici al congresso sono il dieci per cento, gli altri sono tutti in quella spiaggia a prendere il sole.
Dopo pochi giorni al dott. A.N. arriva una lettera di richiamo dal capo del personale dell’azienda farmaceutica per cui lavora. E’ stato riconosciuto. Così, A.N. fa causa alla Rai, a Barnard e alla Gabanelli chiedendo i danni per lesione della reputazione (diffamazione) e del diritto alla riservatezza. Inspiegabile la richiesta danni per “diffamazione”. Infatti, il tribunale non la prende nemmeno in considerazione.
Ma è altrettanto inspiegabile che il tribunale abbia riscontrato la violazione del diritto alla riservatezza. Sul punto argomenta dicendo che “restava l’obbligo di presentare l’intervista con le dovute cautele, per evitare che l’ignaro intervistato potesse essere riconosciuto da terzi”. Ma l’analisi della fattispecie rende chiaro l’errore in cui è incorso il tribunale.
Il diritto alla riservatezza rappresenta l’antitesi del diritto all’informazione. La violazione scatta in mancanza dell’interesse pubblico. Va precisato che nel caso in questione l’interesse pubblico non è riferito all’oggetto della puntata (che è scontato), ma alla identificazione di A.N. In altre parole, se è certo che la collettività va compiutamente informata sulla odiosa pratica del comparaggio farmaceutico, tutt’altro deve dirsi per l’identificazione di A.N. Il pubblico ha interesse ad acquisire le sue affermazioni, ma non a riconoscerlo.
E qui siamo già al nocciolo della questione. Il diritto alla riservatezza tutela l’individuo dagli sguardi del pubblico. Il giornalista viola il diritto alla riservatezza quando consente ad un numero indeterminato di persone (cioè il pubblico) di identificare una persona senza che sussista un reale interesse alla sua identificazione. Un’identificazione che per ovvi motivi può avvenire solo attraverso la diffusione di quei dati personali che caratterizzano un individuo nella sua unicità: i tratti somatici o le generalità. Dati che sono considerati come dati personali identificativi, che secondo l’art. 4, comma 1° lett. c) D.Lgs. n. 196/2003 (“Codice della Privacy”) sono “i dati personali che permettono l’identificazione diretta dell’interessato”.
Non, quindi, la sola voce. Pur essendo la voce un dato personale, la sua diffusione non rende mai possibile l’identificazione diretta del soggetto da parte della collettività indiscriminata, quindi la lesione del suo diritto alla riservatezza (salvo non si tratti della voce di un personaggio noto, ma in tal caso non si porrebbe più alcuna questione di riservatezza). E quando la voce veicola dichiarazioni di pubblico interesse, non vi è nemmeno motivo di criptarla, perché la tutela di quel dato personale si ritrae di fronte all’utilità sociale insita nella sua diffusione, che avviene nell’adempimento della funzione informativa e senza pregiudizio della riservatezza.
Ma il punto principale è un altro. Ed è qui l’errore di valutazione commesso dal tribunale. Ad identificare A.N. non è stato il pubblico, ma soltanto chi risulta a lui legato da uno stretto rapporto, presumibilmente di tipo lavorativo, che ha reso possibile il riconoscimento. In altre parole, un’identificazione resa possibile, mediata da un pregresso rapporto. Di qui la lettera di richiamo inviata ad A.N. dal capo del personale dell’azienda farmaceutica per cui lavora. E siccome in quel servizio le voci non sono chiaramente percepibili, tanto che in fase di montaggio si è addirittura proceduto a sottotitolare quel breve fraseggio, se ne deduce che A.N. è stato identificato dai vertici aziendali soltanto per via dei bermuda celesti con bande laterali bianche indossati durante la breve conversazione con Barnard. Bermuda certamente notati da colleghi e medici che soggiornavano a spese delle case farmaceutiche organizzatrici del congresso.
Ne deriva che il tribunale di Roma, nel considerare l’essere stato A.N. riconosciuto dai vertici aziendali una violazione del diritto alla riservatezza, ha involontariamente, ma di fatto, basato la propria decisione sulla sostanziale equiparazione dei bermuda indossati da A.N. ad un dato personale identificativo. Il tribunale non lo dice, ovviamente. Né mai lo penserebbe. Ma se si considera che la violazione del diritto alla riservatezza avviene quando si relaziona in via diretta un soggetto alla collettività in assenza di un obiettivo interesse pubblico alla sua identificazione, e che quella relazione può instaurarsi solo attraverso la diffusione di un dato personale identificativo, la conclusione (paradossale, certo) non può essere diversa.