Un chiaro segno dei tempi
l'intervista a Romani
sul caso Travaglio
Bologna, 20 maggio 2008
(avv. Antonello Tomanelli)
Giovanni Floris “è un bravissimo giornalista, un po’ targato ma non importa”. Michele Santoro “è un grande professionista che ha ecceduto durante la campagna elettorale” ma “corrosivo, intelligente e che verifica le fonti”. Lucia Annunziata “a volte mi pare prevenuta”. Marco Travaglio “è inammissibile come figura inquadrata in un servizio pubblico”. Sono le parole di Paolo Romani, eletto deputato nelle file del Pdl e ora sottosegretario allo Sviluppo Economico ma con delega alle Comunicazioni, pronunciate nel corso di un’intervista resa a Klaus Davi.
Certo, non si tratta di fonte autorevolissima. Ma le parole di Romani sono illuminanti, perché rispecchiano fedelmente la soluzione che la classe politica dirigente vuole imporre ai conduttori dei programmi di approfondimento informativo: la totale subordinazione dell’informazione alla politica. Subordinazione che si evidenzia principalmente in due momenti: durante la fase (fisiologica) della conduzione e nella fase (patologica) sanzionatoria.
La conduzione, inserita nel contenitore del talk show, è effettuata dando esclusivamente spazio alle valutazioni degli ospiti, quasi tutti politici selezionati in rappresentanza dei gruppi parlamentari, quindi portatori di interessi contrapposti. Il ruolo del giornalista conduttore è quello del moderatore, perché garantisce ai politici pari libertà di argomentazione, in omaggio al principio della par condicio. Il contraddittorio è tra i politici presenti. Un contraddittorio peraltro differito, che alla fine si sostanzia in un susseguirsi di monologhi ininterrotti.
Nulla di strano, se non fosse che tale tipo di conduzione corrisponde non ai programmi di approfondimento informativo, ma ai programmi di comunicazione politica, in cui l’informazione è l’ultima cosa ad essere veicolata. La comunicazione politica, effettuata nel rispetto della par condicio, offre una pluralità di visioni di parte, che non potranno mai coincidere. Di conseguenza, il telespettatore non acquisisce mai un fatto obiettivo, perché la visione di una parte viene smentita dall’altra. Nella comunicazione politica il contraddittorio è tra i politici, ognuno dei quali è però libero di mentire. Essendo l’accertamento della verità l’ultima cosa che si prefigge, la comunicazione politica rappresenta l’antitesi dell’informazione.
Ed una sostanziale trasformazione dei programmi di approfondimento informativo in programmi di comunicazione politica l’ha imposta la stessa Commissione Parlamentare di Vigilanza con il Provvedimento 11 marzo 2003, che ha stabilito che “tutte le trasmissioni di informazione dai telegiornali ai programmi di approfondimento devono rispettare rigorosamente, con la completezza dell’informazione, la pluralità dei punti di vista e la necessità del contraddittorio”. In altre parole, l’informazione su questioni di natura politica viene delegata ai soggetti politici. Addirittura nei telegiornali, dove le contrapposte dichiarazioni dei politici mandate in onda dai tg non fanno altro che tenere il telespettatore lontano dalla verità.
Invece, la ricerca della verità deve essere lo scopo primario di un programma di approfondimento informativo. Ma essendo paradossale pretendere che i politici, che sono faziosi per definizione essendo portatori di interessi di parte e liberi di mentire, possano contribuire alla ricerca della verità, ecco che protagonista del programma dovrebbe essere il giornalista, che è vincolato al dovere deontologico di verità. Di conseguenza, in un programma di approfondimento informativo il giornalista dovrebbe assumere un ruolo attivo nella conduzione. Il contraddittorio dovrebbe essere tra giornalista e politico, quando quest’ultimo mente. Il tutto allo scopo di informare il telespettatore.
Ma con il rischio di un intervento dell’Authority (ecco la fase “patologica” sanzionatoria). Il giornalista che, in obbedienza al dovere di verità, contraddice il politico allo scopo di relazionare il telespettatore al fatto, viene tacciato di faziosità. E accusato dall’Authority di aver violato i doveri di imparzialità, come se fosse venuto meno al suo ruolo passivo di moderatore, di mero garante delle opinioni altrui.
In un simile clima non deve sorprendere che Giovanni Floris venga inserito al primo posto nella personale classifica di Romani. Pur essendo un bravissimo, preparato, elegante ed accattivante conduttore, il suo “Ballarò” è sostanzialmente un programma di comunicazione politica, dove i politici presenti si relazionano al potenziale elettore, in contraddittorio tra loro ma a tutto scapito della verità. Come non deve sorprendere che Lucia Annunziata venga considerata “a volte prevenuta”, proprio perché a volte fa il proprio lavoro attuando un contraddittorio con l’interlocutore, chiedendo spiegazioni che aiutano il telespettatore a capire quando e perché il politico cade in contraddizione.
Ma, soprattutto, non deve meravigliare che Marco Travaglio occupi l’ultima posizione. Nel suo modo di relazionarsi al pubblico non si limita a rivendicare l’autonomia dell’informazione dalla politica. Fa molto di più. Relaziona il pubblico a fatti la cui conoscenza pone molti politici in una situazione di incompatibilità (quantomeno) morale con l’espletamento delle loro funzioni. Travaglio viene da Romani considerato “inammissibile” per il servizio pubblico Rai perché gran parte della classe politica lo considera ormai come la propria nemesi.