Rischia la diffamazione
l'articolo di D'Avanzo
sul metodo Travaglio
Bologna, 18 maggio 2008
(avv. Antonello Tomanelli)
La lezione di giornalismo che con l’articolo apparso su “La Repubblica” del 14 maggio 2008 intitolato “Non sempre i fatti sono la realtà” Giuseppe D’Avanzo si proponeva di impartire a Marco Travaglio dopo la nota critica al presidente del Senato Schifani, avrà un epilogo giudiziario. Il giornalista torinese ha sporto querela per diffamazione. Una questione complessa, da analizzare alla luce dei tre requisiti che la giurisprudenza ritiene indispensabili perché l’eventuale lesione della reputazione possa ricondursi al diritto di cronaca/critica (quindi alla libertà di pensiero di cui all’art. 21 Cost.): verità, interesse pubblico, continenza formale.
Cominciamo dalla continenza formale. Non c’è dubbio che D’Avanzo, nella prima parte dell'articolo, ingeneri nel lettore dubbi sulle frequentazioni di Travaglio, che secondo l’articolista ha soggiornato in un albergo siciliano il cui conto sarebbe stato pagato addirittura da Michele Aiello, il “re mida” della sanità siciliana, amico di Cuffaro, poi condannato dal Tribunale di Palermo a 14 anni di reclusione per associazione di tipo mafioso. Tuttavia, D’Avanzo precisa che una tale circostanza non potrebbe mai scalfire l’integrità morale di Travaglio, il quale non poteva sapere chi fosse in realtà Aiello. Proprio come, a detta di D’Avanzo, Schifani non poteva sapere chi fosse Mandalà, suo socio d’affari poi riconosciuto come boss mafioso e come tale condannato. In altre parole, D’Avanzo usa l’esempio del pagamento del conto di Travaglio proprio per negare l’effetto tipico della violazione del requisito della continenza formale: l’adozione, da parte del giornalista, di “artifici” che, attraverso il meccanismo dell’insinuazione, finiscono per attribuire definitivamente a chi è oggetto di cronaca fatti più gravi di quelli realmente verificatisi.
Dunque, da parte di D’Avanzo, nessuna violazione del requisito della continenza formale. Se voleva in qualche modo attaccare Travaglio per la sua critica a Schifani, bisogna ammettere che l’ha fatto con un colpo basso, ma da maestro. Ciò, beninteso, dal punto di vista della continenza formale.
Passiamo ora all’analisi del requisito dell’interesse pubblico. Una rilevante caratteristica del giornalismo di Travaglio, che è certamente un personaggio pubblico, è lo scandagliare la vita di persone legate alla politica allo scopo di evidenziarne i demeriti o indicarne l’incompatibilità con le funzioni pubbliche loro affidate, nell’ottica di un’auspicabile rivalutazione di quell’etica pubblica ormai compromessa da anni. Sotto questo aspetto, la notizia del farsi Travaglio pagare il conto dell’albergo da un noto mafioso è certamente di interesse pubblico. Interesse che cresce all’indomani della critica che lo stesso Travaglio ha formulato nei riguardi di Schifani, reo di aver frequentato e fatto affari proprio con mafiosi. In altre parole, la notizia è di interesse pubblico perché in grado di incidere sul rapporto che lega il giornalista Travaglio alla collettività.
Ma è con il requisito della verità che probabilmente l’articolo di D’Avanzo dovrà fare i conti in sede giudiziaria. D’Avanzo dice di aver saputo del conto d’albergo di Travaglio dall’avvocato di Aiello. In pratica, Aiello avrebbe riferito al suo avvocato di aver pagato lui quel conto. Si tratta, quindi, di una circostanza che D’Avanzo, stando a quanto da lui stesso affermato, avrebbe acquisito da una fonte di secondo grado: la notizia, cioè, proviene non da chi ha pagato il conto di Travaglio (Aiello, fonte di primo grado), ma da qualcuno a cui Aiello l’ha riferita (il suo avvocato, fonte di secondo grado).
Il problema è che l’avvocato di Aiello, ossia la fonte, ha tempestivamente smentito di aver mai avuto contatti con D’Avanzo. Conseguenza: la fonte non è nemmeno di secondo, ma (quantomeno) di terzo grado. Nel senso che D’Avanzo, non avendo avuto contatti con l’avvocato di Aiello, né con Aiello stesso, deve aver appreso la notizia da un’altra persona, che l’ha appresa dall’avvocato, che a sua volta l’ha appresa da Aiello.
Ora, in giudizio D’Avanzo porterebbe i suoi testimoni, che potrebbero confermare la circostanza. Se il tribunale dovesse ritenere attendibili quelle testimonianze (con particolare riferimento a quella di Aiello, che avrebbe materialmente pagato il conto), D’Avanzo ne uscirebbe indenne, perché la notizia verrebbe considerata come vera. Diritto di cronaca, quindi.
Ma se quei testimoni, in particolare Aiello, non dovessero confermare la circostanza? Di più, se Travaglio mostrasse documentalmente o in altro modo di aver pagato di persona quel conto?
In questo caso, è molto difficile che il tribunale possa riconoscere a D’Avanzo la verità putativa, che si ha quando il giornalista pubblica una notizia falsa credendo in buona fede che sia vera. Il massimo grado di verità putativa è riconosciuta al giornalista che ha tratto la notizia da una fonte ufficiale, che magari l’ha comunicata per errore. Ciò in quanto i fatti contenuti in fonti ufficiali sono veri per definizione. Negli altri casi, la verità putativa viene riconosciuta al giornalista solo quando l’acquisizione della notizia sia stata preceduta da un serio e diligente lavoro di verifica (soprattutto della fonte). In questo caso, D’Avanzo avrebbe appreso la circostanza da una fonte indiretta, che peraltro ha smentito qualsiasi contatto con D’Avanzo. Un comportamento lontano anni luce, quindi, da quel serio e diligente lavoro di verifica che la giurisprudenza pretende per poter riconoscere al giornalista la verità putativa.
Tra l’altro, l’accusa a Travaglio è particolarmente odiosa, perché idonea a lederne la credibilità professionale. Non va dimenticato, infatti, che la carta dei doveri, principalmente in un’ottica di salvaguardia dell’autonomia del giornalista, gli impone di rifiutare “pagamenti, rimborsi spese, elargizioni, vacanze gratuite, trasferte, inviti a viaggi, regali, facilitazioni o prebende, da privati o da enti pubblici, che possano condizionare il suo lavoro e l’attività redazionale o ledere la sua credibilità e dignità professionale”. E non c’è dubbio che accusare un giornalista di farsi pagare la vacanza da un mafioso costituisce un duro colpo alla sua credibilità, soprattutto in considerazione del tipo di messaggio che con i suoi approfondimenti Travaglio si propone di inviare al pubblico.
Infine, non si può non rilevare un aspetto curioso della vicenda. La lezione di giornalismo che D’Avanzo ha voluto dare a Travaglio rischia di risultare viziata da un paradosso. D’Avanzo rimprovera a Travaglio di non attenersi ai fatti, nonostante Travaglio abbia tratto da fonti ufficiali quei fatti posti alla base della critica a Schifani. E per inficiare la validità del cosiddetto “metodo Travaglio” nel rispetto della verità, riporta un fatto (il conto dell’albergo) la cui attendibilità sta a zero, in mancanza di un serio lavoro di verifica. In realtà, è proprio il metodo di lavoro seguito nella circostanza da D’Avanzo il punto debole della critica al “metodo Travaglio”: un metodo di lavoro basato su fonti di terzo grado, non verificate, quindi inattendibili per definizione, contro il metodo Travaglio basato su fonti ufficiali, i cui fatti sono quindi veri per definizione. Un metodo di lavoro, quello di D’Avanzo per l’occasione manifestato contro Travaglio, che rischia di trasformarsi in un micidiale boomerang, in caso di condanna per diffamazione.