Travaglio da Fazio:
legittima la critica
al presidente Schifani
Bologna, 14 maggio 2008
(avv. Antonello Tomanelli)
Fin dagli anni ’70 ha detenuto quote e amministrato società siciliane partecipate da soggetti poi condannati per gravi reati come l’associazione di tipo mafioso, l’usura e l’estorsione. Nel 1995 è stato nominato consulente all’urbanistica e al piano regolatore per il comune di Villabate, dalla giunta retta da un sindaco parente del capomafia Mandalà, che due anni dopo sarà sciolta d’Autorità per accertate infiltrazioni mafiose. E’ questa la parte peggiore del curriculum di Renato Schifani, eletto senatore di Forza Italia nel 1996 grazie ai voti ottenuti nel collegio elettorale di Corleone, oggi presidente del Senato della Repubblica.
Schifani non risulta essere stato indagato dalla magistratura. Tuttavia, quelle amicizie mal si conciliano con la dirittura morale che dovrebbe caratterizzare chi incarna la più alta carica istituzionale dopo quella di presidente della Repubblica. Ed è proprio questo il succo della critica mossa da Marco Travaglio intervistato da Fabio Fazio a “Che tempo che fa” la sera del 10 maggio. Una critica che ha scatenato reazioni bipartisan, tutte tese a fare quadrato attorno al neopresidente del Senato. Ad eccezione di Di Pietro, che ha rivendicato il diritto di critica di Travaglio.
Una critica che si basa su circostanze documentate da fonti ufficiali (provvedimenti giudiziari, visure camerali, decreti, etc.), e che come tali rappresentano il massimo grado di verità putativa, la cui sussistenza esonera il giornalista da qualsiasi responsabilità. Travaglio ha formulato una critica riportando fatti la cui esistenza è incontrovertibile, perché ufficialmente veri.
Nessun dubbio circa la sussistenza dell’interesse pubblico, data l’importanza sia del personaggio Schifani che dei fatti addebitatigli. Anche se si trattasse di fatti lontanissimi, il presidente del Senato non potrebbe certo rivendicare una sorta di diritto all’oblìo, improponibile per un personaggio pubblico del suo calibro, soprattutto in considerazione delle funzioni pubbliche ora esercitate. Peraltro, la consulenza prestata in favore del comune di Villabate, poi sciolto per mafia, è relativamente recente. E, per gli stessi motivi, nemmeno può condividersi l’opinione di Violante, ex magistrato antimafia, che ha definito “pettegolezzo” quanto raccontato da Travaglio, quasi quei fatti rientrassero nella sfera privata di Schifani.
Sbaglia poi l’ottimo Giuseppe D’Avanzo nel suo recente articolo pubblicato su “Repubblica” dal titolo “La lezione del caso Schifani”, laddove sostiene che Travaglio, con le sue affermazioni, voleva indurre il telespettatore a concludere che Schifani è un mafioso. In pratica, D’Avanzo imputa a Travaglio la violazione del requisito della continenza formale, che consiste proprio nell’adozione, da parte del giornalista, di artifici tali da indurre il lettore/telespettatore ad imputare a chi è oggetto di cronaca fatti più gravi di quelli formalmente citati.
A parte il fatto che nella critica il requisito della continenza formale va valutato con minor rigore rispetto a quanto si esige nella cronaca, consistendo la critica in un giudizio che, per forza di cose, non può pretendersi obiettivo. In ogni caso, la critica di Travaglio non aveva per oggetto la mafiosità di Schifani (che non è un fatto), ma la sua indegnità a ricoprire la seconda carica dello Stato per via delle sue passate ed appurate frequentazioni (che sono un fatto). In altre parole, non è necessario essere riconosciuti come mafiosi per diventare indegni di ricoprire altissime cariche istituzionali. E’ questo il messaggio di natura etica che Travaglio ha voluto lanciare.
Assolutamente fuori luogo, poi, le violazioni addebitate da quasi tutti i leader delle forze politiche a Travaglio (e indirettamente alla Rai), consistenti in primo luogo nella mancanza di un contraddittorio. Una motivazione, questa, ormai consueta, adottata principalmente per criminalizzare il comportamento di chi vuole fare informazione. Ma palesemente illogica. Il contraddittorio non ha senso quando vengono citati fatti acquisiti da fonti ufficiali. Nel caso specifico, l’applicazione del principio del contraddittorio porterebbe ad una conseguenza assurda. Nel medesimo contesto vi sarebbe da una parte Travaglio, giornalista, quindi vincolato al dovere deontologico di verità, che cita fatti tratti da fonti ufficiali, quindi veri per definizione. Dall’altra Schifani, un politico, portatore di un interesse di parte, quindi fazioso per definizione, per giunta chiamato ad esprimersi su questioni che lo riguardano personalmente, che per ovvi motivi darebbe una versione di quei fatti in contrasto con le fonti ufficiali, o che addirittura potrebbe negare ogni cosa, ma con le stesse possibilità comunicative di Travaglio. Con il risultato di insinuare nel telespettatore il dubbio circa la verità dei fatti sostenuti da Travaglio e contenuti in fonti ufficiali.
Qui la pretesa del contraddittorio origina da una errata interpretazione del concetto di par condicio, che non ha nulla a che vedere con l’informazione. La par condicio riguarda la comunicazione politica, che deve consentire alle diverse forze politiche di relazionarsi con l’elettore in condizioni di parità. Di qui la necessità del contraddittorio, che è sempre tra politici. Ma pretendere l’applicazione della par condicio (quindi del contraddittorio) anche all’informazione significa porre sullo stesso piano chi ha l’obbligo deontologico di dire la verità con chi non solo è estraneo a tale obbligo, ma ha tutto l’interesse a fornire una versione dei fatti contraria a verità.
E le stesse conclusioni possono trarsi con riferimento al diritto di replica, nel caso specifico richiesto da Beppe Giulietti, altro non essendo che un contraddittorio differito.
Con ogni probabilità la querela per diffamazione sporta da Schifani nei riguardi di Travaglio verrà archiviata già nella fase dell’indagine preliminare. Più o meno come accaduto per il caso Satyricon. Ma la querela rischia di trasformarsi in un micidiale boomerang per il presidente del Senato. Perché la probabile archiviazione, riconoscendo il diritto di critica, verrà motivata sulla base della sostanziale verità dei fatti citati da Travaglio.
Al limite, l’unico passo su cui Travaglio potrebbe rischiare è l’aver associato alla muffa il Presidente del Senato. Ma, in realtà, quella affermazione sarebbe riconducibile al diritto di satira, basata essenzialmente sul paradosso e sulla esagerazione e che da sempre caratterizza lo stile del giornalista torinese. La muffa è il punto di arrivo della parabola discendente che nel pensiero di Travaglio contraddistingue la vita politica degli ultimi quindici anni, e che ha visto diventare protagonisti soggetti dai comportamenti eticamente non impeccabili. Tra questi lo stesso Schifani, che nel discorso di Travaglio logicamente precede la formazione della muffa. Nessuna identificazione tra la muffa e Schifani, quindi. Ma (secondo gli insegnamenti della giurisprudenza) coerenza causale tra dimensione pubblica del personaggio e contenuto del messaggio satirico: ossia tra quanto di negativo rappresenta nella critica di Travaglio la nomina di Schifani a presidente del Senato, in considerazione dei suoi trascorsi siciliani, e la necessità di reagire per la ricostituzione di un’etica pubblica.