L'Agenzia delle Entrate
fa scempio
della privacy degli italiani
5 maggio 2008
(avv. Antonello Tomanelli)
Il viceministro dell’Economia e delle Finanze Vincenzo Visco è stato denunciato in 104 Procure della Repubblica per la nota vicenda della diffusione on line dei redditi degli italiani relativi all’anno 2005. In realtà, stando a quanto trapelato, Visco c’entra poco o nulla. L’unico responsabile dovrebbe essere il direttore generale dell’Agenzia delle Entrate, che con Provvedimento del 5 marzo 2008 ha dato il via a quello che può definirsi lo scempio della privacy di milioni di italiani, consentendo a chiunque di collegarsi al sito dell’Agenzia delle Entrate per consultarne i redditi, e che in termini di risarcimento potrebbe costare allo Stato quanto una finanziaria.
E’ bene fare chiarezza. Il dpr 29 settembre 1973 n. 600 (modificato nel 1991) ha stabilito il principio di pubblicità dell’elenco dei contribuenti. Secondo l’art. 69, l’Agenzia delle Entrate “entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione dei redditi” distribuisce agli uffici delle imposte locali gli elenchi nominativi dei contribuenti, che vengono dati anche ai comuni. Questi elenchi rimangono depositati per un anno “ai fini della consultazione da parte di chiunque, sia presso lo stesso ufficio delle imposte sia presso i comuni interessati” (comma 6°).
Quindi, a norma di legge, chiunque può recarsi in comune o al locale ufficio delle imposte e visionare quegli elenchi, cartacei o informatici, senza addurre alcuna motivazione. E’ una sorta di diritto incondizionato di accesso agli atti, che non richiede la dimostrazione dell’esistenza in chi lo esercita di un interesse giuridicamente apprezzabile, sebbene quegli elenchi contengano dati incontestabilmente personali. Ma il tipo di relazione che si instaura tra il soggetto che richiede la consultazione di quegli elenchi e l’ente che la autorizza è fondamentale per capire l’entità della violazione commessa dall’Agenzia delle Entrate.
Quando il comune consente l’accesso all’elenco dei contribuenti (con i relativi dati personali) identifica il richiedente e gli mette a disposizione quanto richiesto. Effettua, cioè, quella che il D.Lgs. n. 196/2003 (Codice della Privacy) definisce comunicazione di dati personali, ossia “il dare conoscenza dei dati personali a uno o più soggetti determinati […] in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione” (art. 4, comma 1° lett. l).
Non deve trarre in inganno l’ultima proposizione, che fa riferimento a “qualunque forma” e alla “messa a disposizione” dei dati personali. Perché ciò che qualifica l’attività di comunicazione di dati personali è unicamente la pregressa individuazione del soggetto che prende cognizione di quei dati (“uno o più soggetti determinati”, come si esprime l’art. 4).
Un’ipotesi lontana anni luce da quanto reso possibile dall’Agenzia delle Entrate mercoledì 30 aprile mettendo a disposizione sul proprio sito gli elenchi dei contribuenti. Per ovvi motivi, nessuno di coloro che ha consultato quegli elenchi on line era stato identificato. In realtà, l’Agenzia delle Entrate ha effettuato quella che il Codice della Privacy definisce diffusione di dati personali, ossia “il dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione” (art. 4, comma 1° lett. m). Si badi bene: “a soggetti indeterminati”. In pratica, la messa dei dati personali a disposizione della collettività indiscriminata.
Ebbene, l’art. 69 del Dpr n. 600/1973 consente soltanto un’attività di comunicazione dei dati personali relativi ai redditi dichiarati. Comunicazione che avviene attraverso la richiesta di consultazione, attuata nella forma dell’accesso agli atti, preceduta dalla identificazione del soggetto richiedente. Nessuna legge ne consente la diffusione. L’errore (imperdonabile) in cui è incorso il direttore generale dell’Agenzie delle Entrate è proprio l’aver confuso tra loro i (diversissimi) concetti di “comunicazione” e di “diffusione”, consentendo col provvedimento 5 marzo 2008 un’attività di diffusione di dati personali non prevista da alcuna legge, quindi vietata dal Codice della Privacy.
E’ successo quello che accadrebbe se Tizio si presentasse al comune di Milano richiedendo copia dell’elenco dei contribuenti, poi si recasse in tipografia, facesse 500 mila fotocopie e le distribuisse al pubblico in Piazza Duomo, o le accatastasse per terra con accanto il cartello “guardate quanto guadagnano i milanesi”. Il comune di Milano effettuerebbe una (lecita) comunicazione, Tizio una (illecita) diffusione di dati personali.
Che è poi lo stesso errore commesso da molti quotidiani, principalmente nelle loro edizioni locali, quando hanno pubblicato i redditi di alcune categorie di professionisti. Può al limite soddisfare un interesse pubblico la diffusione dei redditi dei cosiddetti vip, essendo personaggi pubblici, nella misura in cui possano formare oggetto della cronaca scandalistica. Ma la diffusione dei dati personali di chi non ha alcun legame con la collettività non può rientrare nel diritto di cronaca, proprio perché in questo caso non sussiste un obiettivo interesse della collettività alla acquisizione di quei dati. Dati che possono essere acquisiti da ogni cittadino, ma considerato nella sua individualità, proprio come prescrive il già visto art. 69 dpr n. 600/1973. E non dalla collettività indiscriminata.
L’errore in cui sono incorsi numerosi quotidiani (e, da ultimo, lo stesso direttore dell’Agenzia delle Entrate) deriva dalla convinzione che ciò che è tecnicamente pubblico (quindi “comunicabile” a chiunque ne faccia richiesta) può essere oggetto di diffusione. Nulla di più sbagliato. Tecnicamente, anche i registri dello stato civile sono “pubblici”. Ma non sarebbe grottesco credere che un quotidiano possa pubblicare l’elenco nominativo dei divorziati del 2007?