Condannato Sgarbi:
diffamò i magistrati
del pool di Mani Pulite
23 aprile 2008
(avv. Antonello Tomanelli)
“Di Pietro, Colombo, Davigo e gli altri sono degli assassini che hanno fatto morire della gente […]. Vanno processati e arrestati. Sono un’associazione a delinquere con libertà di uccidere”. Così si esprimeva Vittorio Sgarbi nelle interviste rese a “L’Avvenire” e a “Il Giornale” del 15, 16 e 19 luglio 1994 sui suicidi eccellenti che seguirono a Tangentopoli, con particolare riferimento a quelli di Raul Gardini, Sergio Moroni e Gabriele Cagliari.
I magistrati Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Francesco Greco lo hanno citato in giudizio chiedendo il risarcimento dei danni. Il Tribunale civile di Milano ha accolto la domanda, condannando Sgarbi a pagare in loro favore la somma di Euro 180 mila, oltre alle spese legali.
Il giudizio aveva subito un’interruzione per via della delibera del 30 maggio 2000 con la quale la Camera dei Deputati (cui apparteneva Sgarbi) aveva giudicato la critica di Sgarbi espressione delle funzioni di parlamentare, quindi insindacabile ex art. 68, comma 1°, Cost. (“I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”). Ma la Corte Costituzionale, chiamata a decidere sul conflitto di attribuzione sollevato dallo stesso Tribunale di Milano, aveva respinto quell’interpretazione, sul presupposto che Sgarbi, pur avendo fatto in passato diversi interventi all’assemblea di Montecitorio sull’uso eccessivo della custodia cautelare, non aveva mai parlato di quei magistrati come “assassini” e “associazione a delinquere”. Quelle frasi, quindi, non potevano ritenersi una reiterazione di funzioni parlamentari precedentemente espletate, condizione necessaria perché le opinioni del parlamentare possano ritenersi insindacabili anche quando espresse lontano dai banchi del Parlamento.
Entrando nel merito della questione, le affermazioni di Sgarbi costituiscono diffamazione aggravata, non potendo essere ricondotte al diritto di critica. E’ vero che nella critica, in quanto legittimo attacco, i requisiti della verità e della continenza formale vanno valutati con minor rigore rispetto a quanto accade nella cronaca, che è narrazione di fatti. E’ anche vero, però, che quanto più la critica poggia su fatti determinati, tanto più il requisito della verità va rispettato. Qualificare “assassino” un pubblico ministero solo perché il soggetto da lui indagato si è tolto la vita, nonché “associazione a delinquere” quel pool di magistrati appositamente costituito per combattere una corruzione dilagante, non può considerarsi rispettoso del requisito della verità.
Un altro aspetto va qui tenuto nel massimo conto: la particolarità della funzione giurisdizionale. Nella sua funzione tipica, il magistrato reprime i comportamenti umani che contrastano con l’ordinamento giuridico. Lo fa attraverso un lungo e complesso iter, che accerta la verità nel rispetto del principio del contraddittorio. Questo iter culmina nella emanazione della sentenza, basata su quelle argomentazioni logiche e giuridiche che costituiscono la motivazione. La stessa attività giurisdizionale, quindi, rappresenta la forma più esemplare di critica, che il magistrato rivolge nei riguardi di un comportamento umano. Una critica dove l'argomentazione prende la forma della motivazione. Pertanto, nella critica ai magistrati l'uso dell'argomentazione è quanto mai necessario, pena la violazione del requisito della continenza formale (sulla problematica si veda la critica ai magistrati).
E le considerazioni non mutano se destinatario della critica è un pubblico ministero, organo giudiziario privo del potere giudicante. I suoi provvedimenti (o meglio, le sue richieste di provvedimenti poi emanati dal gip) non sfuggono alla regola della motivazione, che è ciò che nella critica assume la forma dell’argomentazione. Argomentazione di cui non si trova la benché minima traccia nella critica espressa dall’intervistato Sgarbi.
E’ interessante notare come il Tribunale di Milano abbia ritenuto di non dover estendere ai quotidiani e ai giornalisti intervistatori la responsabilità delle dichiarazioni diffamatorie di Sgarbi. Una decisione certamente corretta, in linea con il nuovo orientamento che ha preso piede nella giurisprudenza a partire dal 2001. Quando il giornalista riporta le dichiarazioni di un personaggio noto, non può essere ritenuto corresponsabile del contenuto. Non va visto come complice del diffamatore, ma come informatore obiettivo di una dichiarazione di pubblico interesse. In questi casi, non è tenuto a controllare, ad esempio, la verità dei fatti contenuti in quelle dichiarazioni, poiché rispetterà il requisito della verità proprio riportando fedelmente le dichiarazioni del terzo. Qui la notizia non riguarda tanto il contenuto, quanto la dichiarazione in sé (sulla problematica si veda cronaca e dichiarazioni altrui).
Una soluzione, però, valida soltanto quando le dichiarazioni provengano da un personaggio pubblico, i cui giudizi possano stimolare l’interesse della collettività, a causa della sua autorevolezza o dell’importanza delle funzioni esercitate. Non è adottabile, invece, quando l’intervista sia fatta ad un soggetto anonimo, privo di alcun legame con la collettività. In questo caso, le eventuali dichiarazioni diffamatorie non potrebbero mai di per sé essere di interesse pubblico. Potrà esserlo il contenuto di quelle dichiarazioni, ossia i fatti indicati. Ma in tal caso il giornalista, prima di pubblicare quelle dichiarazioni, dovrà verificarne la fondatezza, nel rispetto del requisito della verità.