L'Authority sulla
cronaca giudiziaria:
stop ai 'processi mediatici'
23 febbraio 2008
(avv. Antonello Tomanelli)
Con Delibera n. 13/08/CSP del 31 gennaio l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha dettato le linee guida per una corretta rappresentazione delle vicende oggetto di procedimenti giudiziari. In realtà, si tratta di un tentativo di limitare la cronaca giudiziaria. Tant’è che le argomentazioni addotte dall’Authority lasciano davvero perplessi.
L’Authority parte dal presupposto che la “spettacolarizzazione dei processi” produca una gogna mediatica. Va quindi analizzata la locuzione.
Notoriamente la “gogna” è quel collare di ferro che veniva stretto intorno alla gola dei condannati alla berlina. Una pena che consisteva nell’essere pubblicamente derisi. La “gogna mediatica” fa dunque pensare ad una esposizione del soggetto assolutamente ingiustificata, che mira unicamente a screditarlo e, nel contempo, a soddisfare la curiosità morbosa dei telespettatori.
Ma è l’osservanza dei principi del diritto di cronaca ad escludere un simile esito. In primo luogo, è il rispetto del requisito dell’interesse pubblico ad impedire che vi sia sproporzione tra esposizione mediatica e fatto che la occasiona. Sproporzione che si sostanzia in una violazione del diritto alla riservatezza. La “gogna mediatica” opprime il ragazzo down identificato nel filmato diffuso dai compagni di classe e ripreso dalle tv, così come Silvio Sircana fotografato mentre si accosta in auto ad una prostituta.
La “gogna mediatica” è scongiurata altresì con il rispetto del requisito della verità, che è il caposaldo del diritto di cronaca. Una trasmissione di approfondimento informativo dedicata alle indagini su un noto politico, non può costituire “gogna mediatica” se si basa sugli atti della magistratura, che costituiscono fonti ufficiali. Sotto questo aspetto, come ha ricordato Marco Travaglio nel corso della puntata di “Anno Zero” del 7 febbraio, gogna mediatica è “quando si processano in televisione i vicini di casa della signora Franzoni, mentre in tribunale si processa la signora Franzoni”.
Poi, per giustificare le limitazioni alla cronaca giudiziaria, l’Authority ricorda che il diritto di cronaca, espressione dell’art. 21 Cost., deve rispettare quei “diritti inviolabili della persona” garantiti dall’art. 2 Cost. (come l’onore, il decoro, la reputazione, etc.). Qui l’errore di analisi commesso dall’Authority è imperdonabile, perché il conflitto tra quei valori costituzionali, ossia tra art. 21 (che serve la collettività) e art. 2 (che tutela l’individuo) è già risolto in favore dell’art. 21 proprio con l'imporre al giornalista il rispetto dei requisiti della verità e dell’interesse pubblico. In caso contrario, l’art. 21 soccombe di fronte al diritto del singolo individuo tutelato dall’art. 2. Invece, qui l’Authority dice proprio il contrario: che sono i diritti fondamentali del singolo individuo (art. 2 Cost.) a dover prevalere sempre e comunque sul diritto di cronaca (art. 21 Cost.). Se ne deduce che per l’Authority è lo stesso corretto esercizio del diritto di cronaca a costituire “gogna mediatica”. Un’interpretazione che cancella il diritto della collettività alla informazione.
Pure infondato è il riferimento alla presunzione di non colpevolezza, principio che – a detta dell’Authority – nella cronaca giudiziaria è a rischio di violazione. E’ vero che l’art. 27, comma 2°, Cost. dice che “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Ma la presunzione di non colpevolezza è una regola che attiene al processo, imponendo al pubblico ministero di attivarsi per raccogliere prove a carico dell’indagato, che dovrà essere condannato solo se quelle prove dimostrino ragionevolmente la sua colpevolezza. E nessun serio giurista riferirebbe quel principio alla cronaca giudiziaria per limitarla. Tanto più che la giurisprudenza, da oltre trent’anni, è unanime nel riconoscere al giornalista il diritto di cronaca ex art. 21 Cost. sulla base della verità putativa, ossia quando pubblica una notizia falsa credendola in buona fede vera. E il massimo grado di verità putativa si raggiunge proprio quando il giornalista pubblica i risultati di un’inchiesta giudiziaria che poi la sentenza di assoluzione accerterà essere infondati (quindi tecnicamente falsi). Di conseguenza, non si vede come la cronaca giudiziaria possa confliggere con la presunzione di non colpevolezza, se il concetto di verità putativa riconduce sempre l’operato del giornalista all’art. 21 Cost.
L’Authority sbaglia anche quando paventa “il pericolo dell’identificazione dell’organo giudicante con la platea dei telespettatori che rischia di mettere a repentaglio la sua indipendenza psicologica”, esponendolo nel contempo “a tentazioni di protagonismo mediatico”. Sono affermazioni che sviliscono la professionalità dei magistrati, i quali chiedono soltanto di poter fare il proprio lavoro. E sono più che sufficienti le norme di natura deontologica che limitano fortemente i loro rapporti con la stampa.
Altra argomentazione dell’Authority che lascia perplessi è quella che vuole la cronaca giudiziaria raccordata “al grado di sviluppo dell’iter giudiziario, e quindi al livello di attendibilità delle indicazioni disponibili sulla verità dei fatti”. Ciò significa che alle notizie sulle indagini aperte da una Procura della Repubblica dovrebbe darsi il minimo risalto, anche se provenienti da un organo che è fonte ufficiale per antonomasia. E’ chiaro che l’argomentazione cozza contro il principio di immediatezza della notizia, che vuole che la collettività sia informata compiutamente e in tempo reale su fatti di interesse pubblico. Qui si è di fronte a quella stessa forma mentis che vuole impedire la pubblicazione delle intercettazioni.
La Delibera conclude statuendo che tutte le emittenti televisive debbono “garantire l’osservanza dei principi normativi di obiettività, completezza, lealtà ed imparzialità dell’informazione, rispetto delle libertà e dei diritti individuali […] in tutte le trasmissioni che hanno ad oggetto la rappresentazione di vicende e fatti costituenti materia di procedimenti giudiziari in corso, quale che sia la fase in cui gli stessi si trovino”.
E’ la solita formuletta che da parecchi anni si impone in materia di informazione, e che reca in sé una fisiologica ambiguità. Qualsiasi approfondimento informativo potrebbe portare alla violazione di quei principi. Soprattutto, qualsiasi politico le cui vicende giudiziarie venissero illustrate in una trasmissione potrebbe scorgervi la violazione di quei principi. Ed invocare così le sanzioni dell’Authority. La quale si ritrova tra le mani il potere di condizionare le trasmissioni di approfondimento informativo, nonché di scegliere su quali giornalisti far ricadere gli effetti delle proprie sanzioni.
In realtà, l’unico “processo mediatico” su cui l’Authority deve intervenire è quello che suscita curiosità morbosa. Non che la cronaca non debba occuparsene, essendo di indubbio interesse pubblico anche i delitti di Cogne, Erba, Garlasco, Perugia, data la loro gravità. Ma è legittimo chiedersi per quale motivo tanti approfondimenti informativi continuano ad essere dedicati al delitto di Perugia, mentre invece l’informazione latita per quei tanti processi che vedono indagati/imputati/condannati politici di primo piano. E non c’è dubbio che l’interesse pubblico all’approfondimento di un fatto riguardante reati commessi dal noto politico è massimo, visto il rapporto che lo lega alla collettività. Mentre è altrettanto certo che dedicare dozzine di puntate ad Amanda Knox, Raffaele Sollecito e Rudy Guede produce una sovraesposizione mediatica di soggetti dalla dimensione pubblica transitoria e del tutto casuale.