L'Authority bacchetta Santoro:
non ha svolto la funzione
del semaforo

2 febbraio 2008

(avv. Antonello Tomanelli)

Non deve meravigliare la decisione dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom), che imputa ad “Annozero” la violazione del “principio del pluralismo”. Non deve meravigliare perché la vigente normativa in materia di informazione radiotelevisiva fa dell’Agcom un’arma perennemente puntata contro il giornalista conduttore. Una conseguenza prodotta dalla progressiva assimilazione dell'informazione alla comunicazione politica.

Ma come si è potuti arrivare a questo?

Con legge 28 febbraio 2000 n. 28 si è data la definizione normativa di comunicazione politica, che per l’art. 2, comma 2°, è “la diffusione sui mezzi radiotelevisivi di programmi contenenti opinioni e valutazioni politiche”. La comunicazione politica relaziona la collettività ai soggetti politici, ed è generata da questi. In omaggio al principio del pluralismo, per questo tipo di trasmissioni si è giustamente imposto il rispetto della par condicio, stabilendo al 3° comma che “è assicurata parità di condizioni nell’esposizione di opinioni e posizioni politiche nelle tribune politiche, nei dibattiti, nelle tavole rotonde, nelle presentazioni in contraddittorio di programmi politici, nei confronti, nelle interviste e in ogni altra trasmissione nella quale assuma carattere rilevante l’esposizione di opinioni e valutazioni politiche”. Dato caratterizzante la comunicazione politica è che quanto riferito dal soggetto politico è necessariamente di parte.

E la legge n. 28/2000 tiene ben distinta la comunicazione politica dall’informazione. Da un lato, l’art. 2, comma 2°, dice che le norme sulla comunicazione politica “non si applicano alla diffusione di notizie nei programmi di informazione”.

Dall’altro, l’art. 5, disciplinando i programmi di informazione, vieta al giornalista conduttore di “fornire, anche in forma indiretta, indicazioni di voto” e gli impone “un comportamento corretto ed imparziale nella gestione del programma, così da non esercitare, anche in forma surrettizia, influenza sulle libere scelte degli elettori”. Ma questo solo “dalla data di convocazione dei comizi elettorali fino alla chiusura delle operazioni di voto”. In altre parole, se limiti vi sono nella conduzione dei programmi di informazione, essi riguardano soltanto il periodo di campagna elettorale (periodo in cui comunque predomina la comunicazione politica) e non impongono la par condicio, che riguarda esclusivamente la comunicazione politica.

La ragione è semplice. L’informazione è antitetica alla comunicazione politica. Relaziona la collettività al fatto (anziché al soggetto politico) ed è generata dal giornalista (e non dal soggetto politico). Imporre la par condicio nei programmi di informazione significherebbe utilizzare, per accertare un fatto, le valutazioni dei politici. Naturalmente discordanti fra loro e provenienti da persone che ben possono avere un interesse contrario alla verità (si pensi ad un programma che verte su un politico indagato dalla magistratura). Sulla problematica può vedersi la par condicio e le varie sottocategorie.

Tuttavia, si è visto che l’art. 2, comma 3°, L. n. 28/2000 estende le regole della comunicazione politica (quindi la par condicio) ad “ogni altra trasmissione nella quale assuma carattere rilevante l’esposizione di opinioni e valutazioni politiche”. Anche ai programmi di approfondimento informativo, dunque.

Ma – ed è questo il punto fondamentale – quella norma ha previsto solo in termini di eventualità la prevalenza delle valutazioni politiche in programmi che per loro natura sono informativi. Ossia, impone il rispetto della par condicio solo se il conduttore decide autonomamente che nella trasmissione “assuma carattere rilevante l’esposizione di opinioni e valutazioni politiche”. Dunque la L. n. 28/2000 non impone a priori la par condicio nei programmi di informazione, lasciando al conduttore la scelta se privilegiare l’informazione alla comunicazione politica o viceversa e solo in quest'ultimo caso imponendogli la par condicio.

L’avvento del governo Berlusconi del 2001 ha segnato un radicale mutamento del quadro normativo. Con Provvedimento 18 dicembre 2002 la Commissione Parlamentare di Vigilanza ha stabilito all’art. 11 che “ogni direttore responsabile di testata è tenuto ad assicurare che i programmi di informazione a contenuto politico parlamentare attuino un’equa rappresentazione di tutte le opinioni politiche assicurando la parità di condizioni nell’esposizione di opinioni politiche presenti nel Parlamento nazionale e nel Parlamento europeo”. Ai conduttori di programmi informativi viene quindi imposta la par condicio sempre e comunque, quando vertono su un argomento di rilevanza politica, perché ad essere imposta è proprio la presenza dei politici. Ognuno dei quali dà ovviamente una diversa valutazione. In altre parole, qualsiasi fatto di rilevanza politica finisce per essere “accertato” dai politici, anche al di fuori della campagna elettorale, in ossequio ad un frainteso significato di pluralismo.

Addirittura la Commissione di Vigilanza, con Provvedimento 11 marzo 2003, ha stabilito che “tutte le trasmissioni di informazione – dai telegiornali ai programmi di approfondimento – devono rispettare, con la completezza dell’informazione, la pluralità dei punti di vista e la necessità del contraddittorio”, orientando “la loro attività al rispetto dell’imparzialità”, al fine di “fornire ai cittadini utenti il massimo di informazioni, verificate e fondate, con il massimo di chiarezza”. La par condicio viene quindi estesa addirittura ai telegiornali. Sotto questo aspetto, suona grottesca l’affermazione circa la preoccupazione di garantire ai cittadini “il massimo di chiarezza”, se si pensa a come una notizia viene compresa dal telespettatore quando il relativo fatto viene diversamente rappresentato da più soggetti.

Tendenza poi consacrata a livello di legge ordinaria. Prima con la “legge Gasparri”. Poi con l’art. 7, comma 2° lett. c), D.Lgs. n. 177/2005 (“Testo Unico della Radiotelevisione”): “La disciplina dell’informazione radiotelevisiva, comunque, garantisce […] l’accesso di tutti i soggetti politici alle trasmissioni di informazione e di propaganda elettorale e politica in condizioni di parità di trattamento e di imparzialità”.

Dunque, una graduale assimilazione dell’informazione alla comunicazione politica. Un fenomeno che, come si è visto, la L. n. 28/2000 si era ben guardata dall’avallare, partendo dal presupposto che il pluralismo si adatta alla comunicazione politica, che implica valutazioni. Non all’informazione, veicolata dal giornalista e che, in adempimento al dovere deontologico di verità, implica accertamenti.

Questi interventi normativi confliggono con l’art. 21 Cost. Perché frenano l’attività del giornalista conduttore, la cui funzione (relazionare la collettività al fatto) viene in tal modo mediata dai soggetti politici. E quando rispetto a questi ultimi il giornalista conduttore rivendica spazi di autonomia all’interno di un programma, ecco che finisce per violare quell’imparzialità, quell’equità, quel principio del contraddittorio così come concepiti da quelle norme che affidano ai soggetti politici il monopolio dell’informazione, al pari di quanto accade nella comunicazione politica.

Non deve quindi meravigliare se per l’Agcom diverse puntate di “Annozero” non abbiano rispettato “i principi di completezza e correttezza dell’informazione, di obiettività, equità, lealtà e imparzialità dei punti di vista” e “garantito il contraddittorio”, violando così “i criteri fissati nell’atto di indirizzo della Commissione Parlamentare di Vigilanza Rai”. Per l’Agcom Santoro è colpevole di non aver interpretato il ruolo del semaforo. Ossia quel ruolo che si limita a regolare il flusso delle dichiarazioni dei soggetti politici nel rispetto della par condicio, come se si trattasse di un programma di comunicazione politica, senza che assuma importanza l’approfondimento del fatto.

In un sistema in cui debbono essere i soggetti politici a rappresentare la realtà, qualsiasi approfondimento condotto dal giornalista che risultasse sconveniente per un soggetto politico porterebbe ad una violazione dei principi di imparzialità, lealtà e correttezza dell’informazione. Proprio perché fornirebbe una rappresentazione del fatto non mediata dai soggetti politici. In una tale ottica, l’unico modo che ha il giornalista per sfuggire alle sanzioni della onnipotente Authority sarebbe rinunciare al ruolo attivo legato all’approfondimento ed assumere quello passivo di mero garante delle esternazioni dei politici. Delegare, cioè, la rappresentazione del fatto ai soggetti politici presenti (e che il conduttore è obbligato ad invitare) trasformando l’informazione in comunicazione politica, allontanando la collettività dal fatto e relazionandola esclusivamente alle valutazioni (di parte) dei soggetti politici presenti.

Ma nell’augurata ipotesi che i giornalisti conduttori (in primis Santoro) rifiutino di assumere un simile ruolo, le eventuali sanzioni potrebbero essere impugnate dinanzi al Tar. Che potrebbe ritenere illegittime le disposizioni emanate dalla Commissione Parlamentare di Vigilanza, perché in contrasto non solo con le norme di cui alla L. n. 28/2000, ma anche con quelle contenute nel Testo Unico del 2005, interpretate in modo conforme all’art. 21 Cost. Con la conseguenza di annullare ogni sanzione, comminata sulla base di quelle norme, che la Rai e Santoro dovessero eventualmente subire.