Il Papa alla Sapienza,
la lettera dei 67
e il diritto di critica
18 gennaio 2008
(avv. Antonello Tomanelli)
Tutto comincia il 14 novembre 2007, quando Marcello Cini, fisico, Professore Emerito dell’Università “La Sapienza” di Roma, scrive una lettera al Magnifico Rettore Renato Guarini, che viene pubblicata sul quotidiano “Il Manifesto”. In essa il fisico contesta la scelta del Magnifico di far tenere a Papa Benedetto XVI la Lectio Magistralis, sermone che inaugura l’anno accademico, generalmente affidato ad un docente e visto dai più come un atto di indirizzo. Giudica la scelta incompatibile con il principio della libertà di scienza (e della laicità dello Stato, di cui L’Ateneo romano è espressione), perché teme che nella Lectio il Pontefice auspichi quell’“incontro tra Fede e Conoscenza” che è alla base del suo Disegno Intelligente, teso a ricondurre la Scienza sotto i dogmi della Religione, già manifestato nel settembre 2006 in occasione della visita all’Università di Ratisbona.
Pochi giorni prima della cerimonia di inaugurazione, fissata per il 17 gennaio, 67 docenti, quasi tutti dell’area di Fisica, firmano un documento in cui fanno propria la posizione già espressa dal professor Cini e definiscono “incongruo” affidare al Papa la Lectio Magistralis. Ricordano che nel marzo 1990 l’allora Cardinale Joseph Ratzinger, durante una visita alla stessa Università, aveva ripreso una frase del filosofo austriaco Paul Feyerabend, che ha definito “ragionevole e giusto” il processo contro Galileo. Per questo vedono il Papa alla Sapienza come il fumo negli occhi.
Si scatenano le polemiche. Gli studenti preannunciano contestazioni. Ma il Viminale vigila: assicura che il Papa non corre rischi. Previsione condivisa dalla stessa sicurezza vaticana. Nonostante ciò, alle ore 17 del 15 gennaio il Vaticano annuncia che il Papa non si recherà alla Sapienza “per motivi di opportunità”. E i 67 vengono additati come coloro che hanno impedito al Papa di parlare.
Che i 67 docenti firmatari della lettera siano responsabili della mancata visita del Papa alla Sapienza, è francamente poco credibile, se quel numero si mette a confronto con quello dei 4.300 docenti dell’Ateneo. E’ evidente che con quel documento ci si è voluti limitare ad esprimere un dissenso. Ma l’attenzione va posta sia sul contenuto della lettera, sia su alcuni passaggi propri della dottrina di Ratzinger.
La lettera ricorda che il Pontefice, durante la visita alla Sapienza del 1990, aveva riferito la frase di Feyerabend secondo cui in occasione del processo contro Galileo “la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo”, e che quel processo fu “ragionevole e giusto”. In realtà, in quel discorso il Papa non aderì alle conclusioni di Feyerabend. Disse, infatti, riferendosi a quella frase come ad altre citazioni critiche verso Galileo, che “sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica”. Ma disse anche, subito appresso, che “la Fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande”.
Il Papa, dunque, dice di non condividere l’affermazione di Feyerabend su Galileo. Il quale, come è noto, fu condannato dalla Chiesa per aver aderito alle teorie copernicane in contrasto con le Sacre Scritture. Tuttavia, rivendica la subordinazione della scienza ad “una ragionevolezza più grande”. Quella stessa “ragionevolezza” che, secondo il Disegno Intelligente teorizzato da Ratzinger, incontra la Fede nella ricerca della Verità. E nella quale va “inscritta” ogni forma di umana conoscenza.
E’ chiaro che un simile Disegno mal si concilia con il principio della libertà di scienza sancito all’art. 33 Cost. La norma, rifiutando aprioristicamente ogni idea di Verità (sul punto si veda la critica scientifica), non può accogliere nemmeno un’idea di scienza che tragga legittimità dalla sua “inscrizione in una ragionevolezza più grande”, per giunta protesa verso la Fede, come auspica Benedetto XVI. E’ quindi la stessa concezione della scienza così come propugnata dal Pontefice a non “inscriversi” nell’art. 33 Cost.
Ed è proprio l’inconciliabilità delle tesi di Papa Ratzinger con l’art. 33 Cost. ad accrescere la legittimità della critica contenuta nella lettera dei 67, nonostante l’apparente ambiguità del testo. E’ vero che la lettera non chiarisce che la frase su Galileo non era stata condivisa dall’allora Cardinale Ratzinger. Ma è anche vero che quella frase era stata da lui utilizzata in un procedimento logico che porta alla necessità della “inscrizione” della scienza in un qualcosa di comunque “più grande”, proprio come “più grandi” delle stesse teorie copernicane erano per la Chiesa le Sacre scritture, e sulla cui violazione il tribunale dell’Inquisizione basò la condanna di Galileo. In altre parole, la critica dei 67 parte dal presupposto che il vizio di fondo del Disegno Intelligente di Ratzinger non sia dissimile da quello che portò alla condanna dello scienziato pisano, e che contrasta inesorabilmente con la visione laica che permea l’art. 33 Cost.
La lettera dei 67 è certamente espressione del diritto di critica. Ma è stata stigmatizzata dagli esponenti di quasi tutte le forze politiche, alcuni dei quali hanno adoperato toni molto aspri. E se rientra nel diritto di critica riferire ai 67 “intolleranza e fanatismo” (Berlusconi), dire che “hanno vinto i teppisti e i loro cattivi maestri” (Storace), parlare di “debolezza culturale dei reduci del ‘68” (Casini), di “gazzarra laicista della sinistra anticlericale che ha puntato allo scontro” (Udeur), non altrettanto può dirsi delle dichiarazioni rilasciate da Andrea Ronchi (An) e Roberto Castelli (Lega).
Andrea Ronchi ha parlato di “gazzarra pseudo culturale alimentata dal solito clan anticlericale e veteromarxista in servizio permanente effettivo”. Alla frase non può attribuirsi valenza diffamatoria, perché non è obiettivamente lesivo della reputazione indicare qualcuno come “anticlericale” o “veteromarxista”. Ma è molto probabile che tali affermazioni abbiano pubblicamente distorto il credo politico e ideologico della stragrande maggioranza dei 67 firmatari, realizzando così una lesione del loro diritto all’identità personale. Lesione che, pur non costituendo reato, resta comunque un fatto illecito civilmente rilevante, che obbliga chi l’ha commesso al risarcimento del danno. Qui il diritto di critica non può configurarsi a causa del mancato rispetto del requisito della verità, riferita al complesso di credenze che caratterizza la personalità di ciascuno dei 67; e la cui sussistenza dovrà eventualmente essere dimostrata da chi ha loro attribuito quelle precise posizioni ideologiche.
Ancor più gravi, perché penalmente rilevanti, le dichiarazioni dell'ex ministro Roberto Castelli, che ha espressamente qualificato i 67 firmatari della lettera “nazisti rossi”. Qui si sconfina nella diffamazione, perché se non può essere obiettivamente considerato riprovevole l’essere “rosso” (trattandosi anche qui della sola eventuale lesione del diritto all'identità personale), tutt’altro deve dirsi in relazione al termine “nazista”, in conseguenza dello sdegno e del disgusto unanimemente associati a quella ideologia. Vi è dunque la lesione della reputazione, che appunto dà luogo al reato di diffamazione. E nemmeno sforzandosi si troverebbero convincenti argomentazioni per giustificare l’attribuzione di quel termine, vista l’assoluta mancanza del benché minimo nesso logico tra l’iniziativa dei docenti e l’ideologia nazista. Qui la critica non può essere considerata legittima. Il termine è stato adoperato al solo scopo di effettuare una gratuita aggressione alla sfera morale dei 67 docenti.