Lecita la pubblicazione
delle intercettazioni
tra Saccà e Berlusconi
22 dicembre 2007
(avv. Antonello Tomanelli)
Arrivano nuove sconcertanti rivelazioni sul mercato di voto organizzato da Silvio Berlusconi e sul potere di fatto da lui esercitato sui vertici Rai. In una intercettazione telefonica pubblicata sul sito repubblica.it, Berlusconi parla della necessità di “richiamare all’ordine” i consiglieri Rai di area centrodestra e raccomanda ragazze per programmi televisivi come gratifica a senatori disposti a voltare le spalle al governo Prodi. Dall’altro capo del telefono, in ginocchio, Agostino Saccà, presidente di Raifiction, già direttore generale della Rai nel 2002 2003 sotto il governo Berlusconi, che in cambio di queste raccomandazioni riceve dall’ex premier la promessa di un aiuto per quando farà l’imprenditore.
Su Saccà c’è poco da dire. Non solo introduce donne nei programmi Rai prescindendo dai loro meriti professionali. Non solo fa ciò per accontentare i capricci di qualche senatore. Ma addirittura con la consapevolezza che quel favore è la merce di scambio utilizzata dal leader dell’opposizione per comprare voti al Senato. Il tutto contando sull’appoggio del Cavaliere alla sua futura attività imprenditoriale.
Corruzione, essendo Saccà un incaricato di pubblico servizio (ma anche per lo stesso Berlusconi). E il licenziamento come conseguente immediata sanzione, se si considera quanto grave risulti qui la violazione dell’obbligo di fedeltà del lavoratore di cui all'art. 2105 del codice civile. Beninteso, licenziamento con tutte le cautele previste dall'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori in materia di contestazione dell'addebito e garanzia del contraddittorio.
Ma qui l’attenzione va posta sulla furiosa reazione di Berlusconi alla pubblicazione di quelle intercettazioni, definita “un attacco criminale alla privacy”. Tuttavia, basta una sommaria valutazione dell’interesse pubblico alla conoscenza di quelle intercettazioni, nonché una rapida disamina delle norme che disciplinano la professione giornalistica in materia di trattamento dei dati personali, per comprendere la pretestuosità di quelle affermazioni.
Non c’è dubbio che l’interesse pubblico è massimo di fronte a un comportamento del genere. L’intercettazione telefonica del potente e ricchissimo leader della maggiore forza politica del Paese, padrone di Mediaset, che dall’esterno dispone delle mansioni di un dirigente Rai per soddisfare il mercato di voto già avviato in Parlamento, è il grido di una democrazia sostanziale in pericolo. E’ la prova che a volte la sovranità non “appartiene al popolo”, come invece sancisce l’art. 1 Cost. La collettività ha certamente il diritto di sapere che in questo caso la scheda elettorale utilizzata alle urne per delegare l’esercizio della sovranità può rivelarsi carta straccia.
Se poi si guarda nello specifico alle norme del codice di deontologia dei giornalisti, che disciplina il trattamento dei dati personali nell’attività giornalistica, la conclusione non può essere diversa. L’art. 6, comma 2°, stabilisce che “La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica”. Ebbene, quelle intercettazioni svelano non solo lo scarso attaccamento di Silvio Berlusconi alle istituzioni, ma soprattutto un sistema di potere da lui gestito in palese contrasto con la Costituzione e con l’idea stessa di una moderna democrazia.
In altre parole, qui non sarebbe nemmeno esatto parlare di privacy. A ben vedere, infatti, quelle intercettazioni non svelano fatti privati che diventano di interesse pubblico per effetto di un ragionamento logico. Non siamo a Vallettopoli, dove puntuali estorsioni a danno di vip e contatti con dirigenti Rai svelarono un sistema finalizzato sostanzialmente a fare soldi e a garantire a personaggi più o meno noti incontri di sesso con mediocri vallette.
Le conversazioni tra Saccà e Berlusconi, invece, svelano senza equivoci un comportamento finalizzato ad impedire il normale funzionamento di un sistema costituzionale. Un comportamento che vuole distaccare le scelte del corpo elettorale da quelle del parlamentare delegato, tramite il voto, all’esercizio della sovranità popolare. Non si capisce, quindi, come si possa parlare della pubblicazione di quelle intercettazioni in termini di “attacco criminale alla privacy”, quando quelle stesse intercettazioni provano un attacco al principio sancito all’art. 1, comma 2°, Cost. (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”).
Il diritto alla privacy non è un valore assoluto, ma relativo. Soccombe con l’emergere dell’interesse pubblico. E’ come se la privacy fosse invocata da un manipolo di generali intercettati mentre progettano un colpo di Stato. In altre parole, il concetto di privacy non va mai riferito al mezzo (conversazione telefonica) ma al contenuto delle dichiarazioni. Altrimenti, si arriverebbe a considerare di interesse pubblico soltanto ciò che viene detto pubblicamente. Con tutte le disastrose conseguenze che si possono facilmente immaginare sull’informazione e sulla trasparenza dell’azione pubblica.
Da tutto ciò si può agevolmente comprendere l’assurdità di quelle posizioni, espresse da non poche parti politiche, circa la necessità che il disegno di legge sulle intercettazioni trovi rapida approvazione (in proposito si veda l’articolo obbrobri e contraddizioni nel disegno di legge sulle intercettazioni). Statuire il buio assoluto sulle intercettazioni fino al termine delle indagini preliminari (che in alcuni casi possono durare anche 2 anni) significherebbe privare la collettività, che è soggetto sovrano, di un fondamentale strumento di controllo dell’azione dei pubblici poteri. Soprattutto se si considera che le intercettazioni contengono elementi di verità, poiché nascono già dotati di valore di piena prova, a differenza degli altri atti riconducibili al pubblico ministero.
Impedire la pubblicazione delle intercettazioni invocando la tutela della privacy è il più subdolo attacco che si possa portare all’art. 1 Cost. La magistratura è l’unico organo capace di smascherare le malefatte di chi gestisce il Potere. Nascondere alla collettività proprio quei risultati delle indagini che più si avvicinano ad un’idea di verità, contenendo le intercettazioni sostanzialmente delle confessioni molto spontanee, significa porla nelle condizioni di non poter delegare consapevolmente l’esercizio della sovranità.
E se al limite poco importerebbe all’elettore se le conversazioni telefoniche del trafficante di droga o dello sfruttatore di prostitute finissero sui giornali immediatamente o con 2 anni di ritardo, tenendo unicamente al fatto che costoro siano comunque assicurati alla Giustizia, tutt’altra conclusione deve trarsi per i comportamenti di chi è delegato dall’elettore alla gestione della cosa pubblica. La trasparenza che l’art. 1 Cost. esige nell’azione dei pubblici poteri fa dell’immediatezza della notizia un principio irrinunciabile. Con la conseguenza che soprattutto i comportamenti di personaggi cui l’elettorato ha delegato l’esercizio della sovranità vanno conosciuti tempestivamente: ciò grazie appunto alla pubblicazione delle intercettazioni.