I delitti efferati:
quando l'orrore
fagocita la privacy
8 ottobre 2007
(avv. Antonello Tomanelli)
L’interesse pubblico alla notizia segna il limite oltre il quale la tutela della sfera privata subisce un depotenziamento. Quando la notizia riguarda un personaggio “anonimo”, come tale privo di un precedente legame con la collettività, l’interesse pubblico è logicamente dato dalla gravità o eccezionalità dell’evento. Un esempio emblematico è dato dai delitti efferati.
Il delitto efferato non provoca soltanto sdegno, ma anche allarme sociale. Qui l’interesse pubblico è massimo. La collettività va compiutamente informata sia sul gesto efferato in sé, sia sulle motivazioni che hanno indotto l’assassino a compierlo. Data la gravità del fatto, qui un’ampia libertà di narrazione è garantita dall’art. 6, comma 1°, codice di deontologia dei giornalisti, secondo cui “La divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti”.
La norma sancisce il cosiddetto principio di essenzialità dell’informazione, ma risulta così mal formulata da dar luogo ad una sorta di ossimoro. Intitolata “Essenzialità dell’informazione” all’evidente scopo di limitare la notizia al corpus dell’evento, consente tecniche di narrazione che finiscono per offuscare la regola dell’essenzialità. Infatti, qualsiasi “dettaglio” ricollegabile anche indirettamente al fatto “essenziale” può risultare “indispensabile” per garantire “l’originalità del fatto”, per meglio descrivere i “modi particolari in cui è avvenuto” o per la “qualificazione dei protagonisti”. Di ciò si parla in Il diritto alla riservatezza.
Tuttavia, ciò che qui importa rilevare è che la narrazione del delitto efferato provoca inevitabilmente l’indagine sulle motivazioni psicologiche dell’assassinio. Cosa per niente necessaria (o meglio: non “essenziale” ex art. 6 del codice di deontologia) quando ci si imbatte, ad esempio, in un caso di corruzione, per quanto grave possa essere, dove l’informazione è garantita dalla narrazione del fatto in sé, senza alcun bisogno di indagare sulle motivazioni che hanno spinto il funzionario a farsi corrompere. Ed è facile immaginare come un’indagine sulle motivazioni psicologiche di un assassinio possa fare luce su aspetti intimi che indiscutibilmente rientrano nella sfera privata, ma la cui narrazione è senz’altro utile alla “qualificazione dei protagonisti”, per dirla con l’art. 6 del codice di deontologia.
Un esempio emblematico è fornito dalla strage di Erba del dicembre 2006. Venne diffusa la circostanza che Rosa Bazzi, responsabile del massacro insieme al marito Olindo Romano, non poteva avere figli. Si tratta di un dato sensibile, la cui conoscenza però aiuta a qualificare la protagonista, in considerazione della ferocia da lei manifestata nell’accanirsi sul piccolo Youssef.
Quando alla consumazione del delitto efferato segue la rapida cattura dell’assassino, non si pongono particolari problemi di violazione della privacy e/o del diritto alla riservatezza. Qui il giornalista non ha il tempo materiale per procedere ad una autonoma acquisizione della notizia. Perciò, riferirà quanto appreso dagli organi investigativi e dai loro atti (che sono fonti ufficiali). E la formulazione dell’art. 6, comma 1°, codice di deontologia gli garantisce ampia libertà di narrazione. Gli unici limiti sono quelli che gli impongono di evitare “riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti” in caso di diffusione di dati sensibili (art. 5, comma 1°, codice di deontologia), nonché quelli posti a tutela dei minori.
E la rapida cattura dell’assassino fa sì che costui occupi la scena pubblica per un periodo di tempo molto limitato: vale a dire il tempo sufficiente agli organi di informazione per fornire una esauriente ricostruzione del delitto e delle sue motivazioni. Una volta informata la collettività, l’assassino riacquista più o meno lo stesso anonimato di cui beneficiava prima della commissione del delitto.
La questione si complica quando tra la commissione del delitto e l’identificazione dell’assassino trascorre un notevole lasso di tempo. Il mistero determina inevitabilmente un incremento dell’interesse pubblico, in considerazione dell’allarme sociale che genera un assassino in libertà. A differenza di quanto accade in quei casi di immediata identificazione del colpevole, qui l’attività svolta dagli organi di informazione subito dopo la diffusione della prima notizia (il ritrovamento del cadavere della vittima) è strumentale alla acquisizione, da parte della collettività, della seconda notizia (l’identificazione dell’assassino), non meno importante della prima. Qui il giornalista non è relegato ad un ruolo passivo, di mero veicolo di diffusione degli elementi comunicati dalle fonti ufficiali. Raccoglie testimonianze, dati, informazioni che possono fondare indizi di colpevolezza o rafforzare alibi. La sua è un’attività funzionale all’accertamento della verità.
D’altra parte, in considerazione dell’interesse della collettività alla identificazione del colpevole, chi si trova coinvolto nella vicenda diventa un personaggio pubblico. La sua dimensione pubblica permane fino a quando non viene identificato il colpevole. Il suo rapporto con la collettività è dato dall’essere relazionato al delitto. Di conseguenza, vanno applicate le regole generali che tutelano il diritto alla riservatezza. E va applicato, per analogia, l’art. 6, comma 2°, codice di deontologia, secondo cui “La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica”. Potranno quindi essere narrati quei particolari destinati ad incidere sul rapporto tra il personaggio e la collettività, quindi tutto ciò che possa contribuire a chiarire, in termini di verità, la relazione del personaggio con il delitto.
Analogamente tali persone, finché perdura la dimensione pubblica, non possono vantare un diritto all’immagine. Lo si deduce dall’art. 97, comma 1°, L. n. 663/1942 (legge sul diritto d’autore), secondo cui “Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico”. Di conseguenza, sono del tutto legittimi quei lunghi primi piani che inseguono il soggetto mentre cammina sulla pubblica via e fanno da sfondo al commento della voce fuori campo.
Generalmente l’attenzione del pubblico (e, specularmente, l’attività del giornalista) è rivolta verso chi, come indiziato, pare coinvolto nel delitto. Sono i suoi fatti privati che possono essere legittimamente diffusi, secondo le regole appena viste. Ma in occasione del delitto di Garlasco si è assistito alla creazione di dimensioni pubbliche relative a soggetti apparentemente estranei al delitto stesso. E’ il caso delle cugine della vittima (Chiara Poggi), rapidamente battezzate dagli organi di informazione “le gemelle Cappa”. Le quali, dichiarandosi sconvolte per il barbaro assassinio della cugina ma dedicando una cura maniacale al proprio aspetto, non disdegnavano contatti con i cronisti, cui distribuivano piuttosto disinvoltamente book fotografici e curriculum vitae. Aspramente criticate per il loro atteggiamento, sono rimaste al centro della scena pubblica per parecchi giorni, inducendo addirittura un personaggio come Fabrizio Corona a presentarsi sul luogo del delitto per ottenere dalle gemelle un’esclusiva.
Non c’è dubbio che a fare delle gemelle Cappa due personaggi pubblici abbia contribuito in maniera determinante l’episodio della fotografia collocata accanto ai fiori posti all’ingresso della abitazione di Chiara: una fotografia che ritrae le due gemelle sorridenti insieme alla cugina, ma “taroccata” dalle stesse (non si sa bene perché) poco dopo il delitto. Certamente l’episodio non ha fatto altro che accrescere il mistero, tanto che inizialmente qualcuno ha pensato addirittura ad un ruolo delle due gemelle nel massacro della cugina. Ma fino a che punto gli organi di informazione potevano narrare fatti e circostanze riferibili alle gemelle Cappa?
E’ necessario isolare due aspetti della fattispecie. Il primo è l’eventuale relazione delle gemelle con il delitto di Chiara Poggi. Mai formalmente indagate, sono state comunque più volte interrogate dagli inquirenti come persone informate dei fatti. Da questo punto di vista, l’interesse mostrato dagli organi di informazione è legittimo. Ma dal momento in cui le due gemelle sono state escluse dalla lista dei possibili sospettati (ossia dopo aver fornito alibi e Dna), è cessato ogni interesse pubblico alla conoscenza di fatti che le riguardano. In altre parole, con riferimento al delitto, si è azzerata la loro dimensione pubblica.
Tuttavia, va analizzato il secondo aspetto della fattispecie: il comportamento tenuto in pubblico dalle due gemelle, non ricollegabile al delitto (richieste di interviste, distribuzione di book fotografici e curriculum vitae ai cronisti presenti). Qui la soluzione è suggerita dall’art. 5, comma 2°, codice di deontologia, secondo cui “In relazione a dati riguardanti circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico, è fatto salvo il diritto di addurre successivamente motivi legittimi meritevoli di tutela”.
La norma richiama il diritto all’oblio, che può essere invocato da chi, legittimamente oggetto di cronaca in passato, si vede nuovamente posto dagli organi di informazione al centro della scena nonostante sia cessato ogni interesse pubblico per quell’evento. Tuttavia, la norma si occupa specificamente dell’oblio su fatti che in passato sono stati resi pubblici proprio da chi poi lo invoca. Una sorta di diritto di pentimento.
Ed è proprio questo il diritto all’oblio che le gemelle Cappa potevano invocare e che, nei fatti, hanno invocato per bocca del loro padre. Hanno chiesto che venisse calato il sipario su quanto da loro stesse incautamente manifestato all’indomani del delitto attraverso un comportamento quantomeno bizzarro, ma privo di reali collegamenti con il delitto. E, automaticamente, sono uscite di scena. Cosa che non avrebbero potuto mai pretendere se fossero state indagate insieme ad Alberto Stasi, l’ex fidanzato della vittima, poiché in questo caso sarebbero comunque relazionabili al delitto, che ha sempre rappresentato il solo fatto di obiettivo interesse pubblico.