Offesa ai defunti
sulla pagina Facebook
della polizia penitenziaria

Bologna, 19 febbraio 2015

(avv. Antonello Tomanelli)

Ioan Gabriel Barbuta, un rumeno di 39 anni, si suicida nel più grande carcere italiano, quello di Opera, in provincia di Milano. Al posto delle condoglianze arrivano messaggi ingiuriosi sulla pagina Facebook dell’Alsippe, il sindacato della polizia penitenziaria. “Un rumeno in meno”; “chi se ne frega”; “ben gli sta”; "beviamo alla faccia sua"; “mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l’esempio”; e così via.

Lascia quantomeno perplessi che alcuni di questi messaggi siano stati postati addirittura da delegati sindacali. E non può stupire che il ministro della Giustizia Andrea Orlando abbia tempestivamente convocato il capo dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo per chiarimenti.

Come tutti sanno, è molto semplice risalire agli autori di tali post. Ma non allo scopo di rispondere per le rime augurando loro il peggiore dei mali, ma per avviare un procedimento penale.

La denuncia per diffamazione non è solo una prerogativa dei vivi. L’ordinamento tutela anche l’onore dei defunti. Lo si deduce chiaramente dall’art. 597 del codice penale, che contempla l’ipotesi dell’offesa alla memoria di un defunto, stabilendo che “i prossimi congiunti, l’adottante e l’adottato” possono proporre querela per diffamazione.

Ora, è chiaro che di fronte ad un fatto tragico come il suicidio, a prescindere da quello che il suicidato abbia fatto per essere finito in galera, inviare pubblicamente messaggi del tipo “un rumeno in meno”, “chi se ne frega”, “ben gli sta”, "beviamo alla faccia sua", “mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l’esempio”, realizza la fattispecie di cui all’art. 597 del codice penale. Ciò sul presupposto che i prossimi congiunti del defunto (il quale fino a prova scientifica contraria non può recepire gli insulti ma non può nemmeno reagire ad essi) si sentono offesi da tali affermazioni nella misura in cui è offesa la memoria del loro caro defunto.

E’ una tutela approntata non nei confronti del defunto, ma nei confronti di quei soggetti (i “prossimi congiunti” di cui alla citata norma) che conservano i ricordi e gli affetti riferiti al proprio caro e che “di riflesso” si sentono feriti da dichiarazioni che manifestano pubblicamente non solo indifferenza, ma addirittura compiacimento, se non ebbrezza, nei confronti di un tragico gesto come il suicidio; e che non può che suscitare riprovazione non solo dai prossimi congiunti del defunto, ma anche da qualsiasi persona dotata di un minimo di intelletto e di sensibilità.