Toga rossa a un magistrato:
per la Cassazione
non è diffamazione?
Bologna, 30 gennaio 2015
(avv. Antonello Tomanelli)
Descrivere un magistrato come “toga rossa” non integra il reato di diffamazione. Sembra questo il messaggio lanciato dalla Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, che con sentenza n. 1435/2015 ha rigettato in via definitiva il ricorso presentato dal pubblico ministero palermitano Lorenzo Matassa per una frase sul libro “Piombo Rosso”, un libro sugli anni di piombo scritto da Giorgio Galli, in un cui passo si legge: “il pm era una toga rossa, proprio di Palermo, di quelle particolarmente sgradite al presidente del Consiglio e ai suoi giornali”. All’epoca, il presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi, che notoriamente ha sempre utilizzato l’espressione “toga rossa” per indicare magistrati particolarmente attivi sul fronte delle indagini.
Secondo i giudici della Suprema Corte, “la censurata espressione ‘toga rossa’ presa nel contesto di un’ampia trattazione sul periodo dei cosiddetti anni di piombo non risultava usata in tono denigratorio e dispregiativo, bensì in senso positivo, ossia per indicare l’atteggiamento di un magistrato inquirente che non si ferma alle apparenze e che gode di una coscienza tranquillamente fiera”.
E’ bene rilevare che il senso di tale sentenza potrebbe facilmente essere frainteso. La Suprema Corte non ha detto che è legittimo qualificare un magistrato come “toga rossa”. Ha solo detto che l’autore del libro, nell’identificare il magistrato Lorenzo Matassa quale “toga rossa”, non voleva lederne la reputazione, ma semplicemente rimarcarne determinazione e intransigenza nell’esercizio delle proprie funzioni, tanto da guadagnarsi un tale appellativo, propinato dall’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a qualsiasi magistrato che mostri un particolare attaccamento al proprio lavoro, talvolta configgente con alte istituzioni.
In realtà, la delicatezza della funzione giudiziaria restringe alquanto l’area della libertà di critica. Se generalmente additare qualcuno come “rosso” non integra gli estremi della diffamazione, non altrettanto può dirsi quando il destinatario della critica riveste la qualifica di magistrato.
Per l’art. 104, comma 1°, Cost. i magistrati costituiscono “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. E’ il Potere Giudiziario. La loro funzione è quella di reprimere i comportamenti umani che si pongono in contrasto con le leggi emanate dal Parlamento. Lo fanno attraverso un lungo e complesso iter, che accerta la verità nel rispetto del principio del contraddittorio tra accusa e difesa. Questo iter culmina nella emanazione della sentenza, basata su quelle argomentazioni logiche e giuridiche che costituiscono la motivazione. La stessa attività giurisdizionale, quindi, rappresenta la forma più esemplare di critica, che il magistrato rivolge nei riguardi di un comportamento umano.
Una critica che è espressione non della libertà garantita dall’art. 21 Cost., ma di un obbligo imposto dall’ordinamento. Ossia, non frutto di una libera scelta, ma conseguenza obbligata dell’esercizio di funzioni costituzionali.
E’ agevole, quindi, comprendere come nei riguardi dell’attività giudiziaria la libertà di critica garantita dall’art. 21 Cost. subisca una compressione. Gli atti compiuti da un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni non possono essere posti sullo stesso piano delle azioni di un politico, il quale gode della più ampia libertà di scelta ed è sottoposto soltanto al giudizio degli elettori. In proposito si noti la lettera dell’art. 101, comma 2°, Cost.: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
Più volte la Corte di Cassazione si è occupata del diritto di critica verso i magistrati, in modo particolare verso i pubblici ministeri. In proposito può ricordarsi la condanna per diffamazione di Vittorio Sgarbi, reo di aver accusato i magistrati del pool antimafia (in particolare Giancarlo Caselli) di "indagini politiche". In quell’occasione la stessa Corte di Cassazione aveva affermato che “Non sussiste l’esimente del diritto di critica allorché un magistrato del pubblico ministero venga accusato di svolgere indagini politiche”, poiché in generale “l’accusa di asservimento della funzione giudiziaria ad interessi personali, partitici, politici, ideologici, ovvero accuse di strumentalizzazione di quella funzione per il conseguimento di finalità divergenti da quelle che debbono guidare l’operato dei pm, stanti le attribuzioni ed i doveri istituzionali che caratterizzano la posizione ordinamentale di tale rango […] assumono portata offensiva, risolvendosi in un attacco alla sfera morale della persona”.
Sulla base di quanto detto, non può ritenersi legittimo, in un contesto di critica, attribuire ad un magistrato del pubblico ministero l’appellativo di toga rossa. Nel caso in questione l’intento di Giorgio Galli, l’autore del libro “Piombo Rosso”, non era certo quello di esercitare una critica nei confronti del magistrato. L’autore voleva semplicemente indicare al lettore la figura del pubblico ministero Lorenzo Matassa, additato all’opinione pubblica dall’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (e dai quotidiani a lui riconducibili) quale “toga rossa”.
In altre parole, nel momento in cui l’autore del libro qualifica il magistrato Lorenzo Matassa quale “toga rossa”, non esercita una critica, ma altro non fa che identificare una modalità di esercizio della funzione giudiziaria particolarmente sgradita all’ex premier Silvio Berlusconi. Per questo, a detta della Suprema Corte, non può rinvenirsi nello scritto alcuna diffamazione, ma anzi la mera descrizione di una figura istituzionale “che non si ferma alle apparenze e che gode di una coscienza tranquillamente fiera”.