Charlie Hebdo
e il reato di vilipendio
della religione musulmana
Bologna, 18 gennaio 2015
(avv. Antonello Tomanelli)
Si è parlato tanto (e se ne parlerà ancora) delle vignette satiriche del quotidiano parigino “Charlie Hebdo”, la cui reiterata pubblicazione ha spinto due fanatici musulmani a compiere una strage all’interno della redazione. Si è anche parlato dell’opportunità che un gran numero di testate giornalistiche, anche televisive, in tutto il mondo occidentale (Italia compresa) le riproponesse in segno di solidarietà, a distanza di pochi giorni dalla mattanza.
Per la verità, non sono mancate le defezioni. Testate del calibro della Bbc, L’Independent, il Telegraph, gli stessi colleghi francesi di Libération, tutti i media russi e molti altri ancora, dagli Stati Uniti al Canada all’Australia, si sono rifiutati di riprodurre raffigurazioni che deridono e insultano pesantemente Maometto. La ragione è semplice: evitare di ferire, se non provocare, quel miliardo abbondante di musulmani che popola il pianeta.
L’adesione all’iniziativa di solidarietà è stata comunque maggioritaria. Si è detto che la libertà di satira, e in generale di stampa, non può autolimitarsi per il timore della reazione di un gruppo di fanatici accomunati solo dall’odio verso tutto ciò che è occidentale. Una motivazione giusta, non c’è che dire. Ma siamo sicuri che pubblicazioni simili a quelle che hanno scatenato la mattanza parigina siano del tutto prive di pecche? Siamo sicuri che la pubblicazione di simili vignette non abbia trasceso la mera questione dell’opportunità per interessare lo stesso concetto di legittimità?
Personalmente non ne sono affatto sicuro. Anzi. Si parta da una premessa fondamentale, che certamente la stragrande maggioranza delle persone di senno condivide. La libertà di satira non è illimitata, come non è illimitata la libertà di stampa. Quando un giornalista scrive un articolo su un fatto di cronaca esercita la libertà di stampa, ma lo stesso giornalista sa bene che non potrebbe diffamare una persona dandogli gratuitamente del cretino o attribuendogli fatti inesistenti. Allo stesso modo, l’autore satirico incontra alcuni limiti nell’estrinsecazione della propria vena artistica, poiché anche la satira può essere (e a volte è) veicolo di diffamazione.
Come ampiamente spiegato in Il diritto di satira, essa può prendere di mira soltanto un personaggio pubblico (la satira su un soggetto anonimo sarebbe inconcepibile, in quanto riguarderebbe un soggetto privo di rapporto con la collettività, quindi non potrebbe nemmeno essere afferrata). Posto che caratteristica principale della satira è la deformazione, la rappresentazione caricaturale, la raffigurazione di un soggetto o di un fatto in chiave grottesca, è lecita laddove si riscontra quello che la giurisprudenza chiama nesso di coerenza causale tra la dimensione pubblica del personaggio preso di mira e il contenuto del messaggio satirico. In altre parole, è lecita la satira che ha un senso per quel particolare personaggio. Volendo utilizzare un concetto geometrico, mentre il giornalista esercita correttamente il diritto di cronaca sul fatto riguardante un personaggio quando traccia un quadrato, l’autore satirico, con riferimento al medesimo fatto, gode della libertà di erigere un cubo di lato pari a quello del quadrato disegnato dal giornalista.
Si badi bene, ciò vale anche quando la satira verte su una qualche autorità religiosa vivente, come può essere un arcivescovo o un Imam, sempre che siano personaggi noti al pubblico. Non vi è alcuna ragione di limitare la libertà di satira nei confronti di costoro, in quanto personaggi pubblici che si rapportano, grazie soprattutto alla cronaca, in maniera più o meno continuativa con la collettività. Persino il Papa non va considerato immune alla satira, anche se messaggi dal contenuto pungente tendono a mal conciliarsi con la pacatezza che solitamente circonda le esternazioni del Pontefice.
La questione si complica, facendosi molto ma molto delicata, quando si passa a quella particolare satira religiosa che verte non su personaggi viventi, ma su entità spirituali o simboli religiosi, potenzialmente lesiva non della reputazione di un determinato soggetto, ma del sentimento religioso di un numero indeterminato (ma cospicuo) di persone. E’ intuitivo che mentre una satira su Berlusconi, su Renzi o su Napolitano (ed entro certi limiti anche sul Papa) offende intimamente (e in linea di principio) solo costoro, una satira su Maometto o su Gesù Cristo, peraltro personaggi non viventi, offende intimamente miliardi di persone.
Di più. Figure come Maometto, Gesù Cristo, Dio e la Madonna esistono se e nella misura in cui preesiste una fede, fenomeno soggettivo intimo per antonomasia. Sono figure che, pur rivestendo un ruolo assolutamente primario nella vita interiore del credente, non hanno alcuna possibilità di incidere sugli eventi del mondo esteriore, a differenza di chi ricopre ruoli confessionali terreni. Sono, cioè, figure prive di dimensione pubblica. Proprio perché attengono alla fede, quindi alla sfera privatissima di chi quella fede pratica, esprimono un concetto antitetico a quello di “dimensione pubblica”.
Ne consegue che qui è impossibile concepire un messaggio satirico in coerenza causale con la dimensione pubblica del personaggio, proprio perché non vi è alcuna dimensione pubblica. A maggior ragione per quanto riguarda una figura come quella di Maometto, la cui raffigurazione è addirittura vietata dalla stessa religione islamica e i cui tratti somatici sono perciò inafferrabili per gli stessi musulmani.
Tra l’altro, non vi è nessuno che potrebbe contestare l’estrema offensività delle vignette su Maometto create dal quotidiano Charlie Hebdo, alcune delle quali, come è noto, raffigurano il Profeta addirittura in una nota posizione equivoca con una stella infilata nell’ano o con il turbante la cui forma, ricalcando quella dei testicoli, identifica immediatamente il suo viso con il simbolo fallico.
Non vi è dubbio che la pubblicazione di vignette di questo genere integra gli estremi del reato di cui all’art. 404 del codice penale, che punisce “Chiunque, in luogo destinato al culto, o in luogo pubblico o aperto al pubblico, offendendo una confessione religiosa, vilipende con espressioni ingiuriose cose che formino oggetto di culto, o siano consacrate al culto, o siano destinate necessariamente all'esercizio del culto […]”.