'Legge bavaglio':
la bufala della privacy
e la vittoria della censura
Bologna, 16 giugno 2010
(avv. Antonello Tomanelli)
Per alcuni politici è questione di vita o di morte. E si vede. Il ddl intercettazioni vorrebbe essere approvato in tempi rapidissimi, comunque prima dell’estate, anche dopo che il governo americano e, da ultimo, l’OSCE hanno espresso grandi preoccupazioni.
I suoi sostenitori dicono che bisogna tutelare il diritto alla riservatezza (meglio noto come privacy) di chi, suo malgrado, finisce nel tritacarne di quel meccanismo chiamato “gogna mediatica”. Non dicono (e in alcuni casi certamente non sanno) che il diritto alla riservatezza è tutelato da più di trent’anni, da quando la giurisprudenza degli anni ’70, attentissima ai diritti della persona, lo ha collocato tra quei diritti inviolabili di cui parla all’art. 2 Cost. Senza contare poi la legge sulla privacy, che dal 1996 tutela anche penalmente l’illecita diffusione di dati personali.
Non vi è alcun bisogno, quindi, di emanare una legge per tutelare un diritto già garantito dalla Costituzione. E nessun legislatore si sognerebbe di bloccare la costruzione e l’esportazione delle automobili in Italia per scongiurare le morti per incidenti stradali, o vietare gli interventi chirurgici perché ogni anno centinaia di pazienti per errore muoiono sotto i ferri. Ciò in quanto l’omicidio colposo è punito. In realtà, questa legge, in nome della privacy, limita fortemente lo strumento investigativo delle intercettazioni, ultimo baluardo tecnologico contro la criminalità. E quella della tutela della privacy è la più grande balla data da bere al pubblico italiano.
Coloro che vogliono a tutti i costi questa legge sembrano disperati. Ma la fretta è cattiva consigliera. Ne è venuto fuori un testo che contiene incredibili illogicità, e di cui probabilmente i giudici della Corte Costituzionale stanno già ridendo. Prima fra tutte, quella che da un lato consente in generale la pubblicazione, anche se solo “per riassunto”, di ogni atto investigativo dal momento in cui cessa il segreto istruttorio (che coincide con il momento in cui l’indagato ha diritto di averne conoscenza: un esempio è la notifica dell’ordinanza di custodia cautelare nel momento in cui l’indagato viene arrestato). Dall’altro, pone il divieto assoluto di pubblicazione delle intercettazioni anche quando il segreto istruttorio è cessato (ossia quando le intercettazioni vengono depositate presso la segreteria del pubblico ministero a disposizione dei difensori delle parti).
Ebbene, ecco l’incredibile illogicità. Sarà consentita la pubblicazione di atti (come, ad esempio, un’ordinanza di custodia cautelare) di natura essenzialmente indiziaria, che non potranno nemmeno essere visti dal giudice del dibattimento. Mentre non si potranno pubblicare le intercettazioni nonostante l’ordinamento le consideri prova a tutti gli effetti, data la loro natura essenzialmente confessoria. Tant’è che le trascrizioni delle intercettazioni finiscono sul tavolo del giudice del dibattimento, il quale ben potrà su di esse fondare una condanna. Viene da pensare che chi ha ideato questa norma abbia il terrore di future intercettazioni, che probabilmente stanno per essere pubblicate.
In ogni ordinamento democratico, il segreto istruttorio è necessariamente limitato nel tempo e unicamente posto a tutela dell’integrità delle indagini. Giornalisticamente parlando, finché su un’indagine c’è il segreto istruttorio non esiste una notizia, poiché l’indagine (quindi il “fatto”) è in divenire. Cessato il segreto, si perfeziona la notizia, poiché l’indagine ha individuato il fatto nella sua completezza, tant’è che lo stesso pubblico ministero (che a quel punto non teme più alcun pregiudizio alle proprie indagini) non ha alcun problema a mostrare le risultanze investigative all’indagato, depositando le intercettazioni perché vengano esaminate dal suo difensore. Da quel momento il “fatto” può essere pubblicato (beninteso, se di interesse pubblico). E da quel momento può parlarsi di censura se una legge ne vieta, in qualsiasi modo, la pubblicazione.
Tra l’altro, il ddl prevede una pena fino a sei anni di reclusione per chi pubblichi intercettazioni prima della fine dell’udienza preliminare (spesso tra l’acquisizione dell’intercettazione e la fine dell’udienza preliminare passano anni). Insomma, pene edittali alla mano, la pubblicazione di intercettazioni diventa un reato più grave della corruzione.
Una tale legge, oltre che irragionevole, vìola palesemente l’art. 21, comma 2°, Cost., secondo cui “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Si tratta di una censura generalizzata e definitiva, ben più grave di quella che viene occasionalmente esercitata ad hoc da un organo pubblico che sconfina dalle proprie attribuzioni, come può essere quella che ogni tanto sentiamo provenire da organi quali l’Agcom o la Commissione Parlamentare di Vigilanza.
Gli organi di stampa non potranno più informare la collettività su fatti di indubbio interesse pubblico, acquisiti tramite il più attendibile strumento investigativo. E molto spesso si tratterà di fatti strettamente attinenti ad aspetti patologici della politica (si pensi alle intercettazioni che svelano la corruzione di politici). Con questa legge, i cittadini (che sono soprattutto elettori) saranno tenuti all’oscuro per anni delle malefatte più o meno direttamente riconducibili a coloro ai quali periodicamente delegano l’esercizio della sovranità. Risulta così vanificato l’art. 1, comma 2°, Cost., che perentoriamente sancisce: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Se si neutralizza il principio di immediatezza della notizia, si impedisce agli elettori il consapevole esercizio della sovranità, che è il fondamento di ogni democrazia.