Perché Michele Santoro
è considerato un sovversivo
nel regime italiano

Bologna, 27 marzo 2010

(avv. Antonello Tomanelli)

In qualsiasi ordinamento la diffusione di una notizia può ledere gli interessi di chi detiene il Potere. In questo caso si genera un conflitto tra costoro e il giornalista. A seconda di come si risolve il conflitto, si misura il grado di democrazia di un ordinamento.

In un ordinamento democratico il giornalista ha una missione: tenere informato il pubblico. In questo meccanismo i pubblici poteri hanno un compito preciso: garantire l’informazione, ossia il rapporto diretto tra il giornalista e la collettività. Di qui il divieto assoluto di ogni censura, intesa come l’intervento dei pubblici poteri diretto a limitare il flusso informativo. Un concetto espresso dall’art. 21, comma 2°, Cost., il quale è perentorio nell’affermare che “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. La norma esige che l’informazione, generata dal giornalista, debba raggiungere immediatamente il pubblico, senza condizionamenti o mediazioni. Qui la censura è considerato atto patologico. Ciò in quanto il giornalista è l’anello di congiunzione tra il fatto e la collettività.

La libertà di informazione, e con essa il livello di democrazia di un ordinamento, diminuiscono man mano che i pubblici poteri interferiscono nel rapporto tra il giornalista e la collettività, per risolvere il conflitto a proprio vantaggio. L’interferenza raggiunge il livello massimo quando il flusso informativo viene interrotto. Ciò può avvenire bloccando una notizia o allontanando un giornalista “scomodo”. In ogni caso, qui i pubblici poteri intervengono per azzerare il rapporto diretto tra giornalista e collettività, dando vita ad un sistema che vede quel rapporto mediato dai pubblici poteri stessi. Il giornalista non è più l’anello di congiunzione tra fatto e collettività, ma solo il raccoglitore della notizia, che verrà eventualmente diffusa nei modi stabiliti da chi detiene il Potere. Siamo al Regime, dove la censura costituisce atto fisiologico.

Il regime Italia ha indubbie particolarità. Vi è l’art. 21 Cost., il contenitore costituzionale della libertà di informazione, neutralizzato però da una miriade di norme e di provvedimenti emanati da appositi organi di controllo (Commissione di Vigilanza per la Rai e Agcom per le reti private) che dettano le regole dell’informazione televisiva. Formalmente, raccomandano al conduttore delle trasmissioni giornalistiche di attenersi ai canoni della “imparzialità, obiettività e completezza dell’informazione”. In realtà, sono l’arma per impedire qualsiasi approfondimento. Vediamo in che modo.

Come è noto, il contenitore privilegiato dell’informazione televisiva è il talk show. Idealmente il giornalista è al centro, circondato da politici di opposti scheramenti, presenti in modo da rispettare il criterio della par condicio. Da un lato, soggetti che, per ovvi motivi, diranno cose diverse e, soprattutto, liberi di mentire. Dall’altro, il giornalista, vincolato al dovere deontologico di verità. In un contesto del genere, logica lo vorrebbe impegnato a far emergere la verità. Infatti, nei programmi di approfondimento informativo, il giornalista, che ha il dovere di informare la collettività, dovrebbe partecipare al contraddittorio, scontrandosi con il politico quando quest’ultimo mente, proprio in conseguenza di quel rapporto diretto che lo lega alla collettività.

Al contrario, nei programmi di comunicazione politica sono i politici ad avere un rapporto diretto con la collettività. Qui il giornalista funge da moderatore, da semaforo, dovendo solo garantire ai politici le medesime possibilità di comunicare con il pubblico, in omaggio al principio della par condicio.

Ebbene, accusare un conduttore di un programma informativo di “imparzialità” quando attua il contraddittorio con un politico è la conseguenza di un sistema normativo (contrario all’art. 21 Cost.) che vuole un’informazione disciplinata alla stregua di comunicazione politica, dove è il politico, libero di mentire, a rivendicare un rapporto diretto con la collettività. E se si pensa che, per ovvi motivi, il politico, nella maggioranza dei casi, rappresenta un potere pubblico, ecco che si materializza una caratteristica del Regime: l’informazione mediata dai pubblici poteri.

A maggior ragione la conclusione vale per il giornalista che decide di trattare nel proprio programma una questione imbarazzante per chi detiene il Potere. Al contrario di quanto accade in una democrazia, in un Regime chi detiene il Potere non deve garantire la libertà di informazione. E ben può censurare un giornalista che su quella questione volesse addirittura informare la collettività.

E’ chiaro che in un sistema del genere il comportamento di Michele Santoro diventa sovversivo. Rivendica la propria autonomia, quindi il rapporto diretto con il pubblico, interferendo nel rapporto tra politico e collettività. E addirittura decide, ad esempio, di dedicare una puntata di “Annozero” su una scottante questione come il caso Mills. Così facendo, commette la più grave violazione per un giornalista calato in un Regime: approfondire un fatto di indubbio interesse pubblico ma destinato a squalificare il Capo.