Il decreto salva liste
e la menzogna della
interpretazione autentica
Bologna, 7 marzo 2010
(avv. Antonello Tomanelli)
Immaginiamo di essere all’ultima partita del campionato di calcio, con le due squadre entrambe prime in classifica che si fronteggiano. Chi vince la partita vince il campionato. Le squadre sono sullo zero a zero. Passa il novantesimo, vengono concessi 3 minuti di recupero. Alla scadenza del terzo minuto parte da centrocampo un lancio in area di rigore. Proprio in quel momento l’arbitro fischia la fine. Nonostante ciò, un bravo centravanti, non appena gli arriva la palla, la gira al volo e insacca. La squadra esulta, ma l’arbitro fa notare di aver già fischiato la fine. Però quella squadra vuole la vittoria, urla al complotto e annuncia ricorso.
In pendenza di ricorso la Federazione decide di intervenire allo scopo di chiarire il significato oscuro di “tempo scaduto”. Viene approvata una norma interpretativa, quindi retroattiva, secondo cui è regolare il gol realizzato dopo il fischio finale dell’arbitro, se chi lo ha realizzato si trovava in’area di rigore.
Si può spiegare così, almeno in parte, quanto accaduto in questi giorni. A Roma il Pdl aveva presentato le proprie liste fuori tempo massimo. A Milano erano state riscontrate addirittura irregolarità nell’autenticazione delle firme degli elettori, indispensabili per presentare le liste.
Per il Pdl la situazione era disperata, principalmente perché la Costituzione non ammette la decretazione d’urgenza (ossia il decreto legge del Governo) per regolamentare la materia elettorale, che è prerogativa esclusiva del Parlamento. Lo dice chiaramente il quarto comma dell’art. 72 Cost.: “La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi”.
E cosa fa il Governo per aggirare questo insormontabile ostacolo? Dichiara che il decreto legge che sta per emanare contiene norme di interpretazione autentica. In altre parole, non sarebbe una legge di modifica di norme (elettorali) esistenti, perché si limiterebbe a chiarirne il significato. In questo modo, la nuova “interpretazione” ha effetto retroattivo, ossia vale per situazioni già verificatesi.
In generale, la legge di interpretazione autentica serve proprio a chiarire il significato di norme ambigue. Ma è la sua stessa funzione a delimitarne l’utilizzo. Ha come presupposto l’esistenza di una norma non chiaramente formulata, che può essere interpretata in vari modi e che, soprattutto, ha già dato prova di non essere ben compresa per mancanza congenita di chiarezza. Ecco che, allo scopo di prevenire ulteriori situazioni di incertezza e conflitti, interviene il legislatore guidando i giudici, permettendo loro di fornire a quelle norme (incerte) un significato univoco. Ed avendo la sola funzione di chiarire la portata di una norma già in vigore, una simile legge non può creare fattispecie nuove, né abolire quelle presenti nella legge che si prefigge di interpretare.
Ora, andiamo nello specifico a vedere cosa è successo, incominciando da Roma.
L’art. 9, comma 1°, legge 17 febbraio 1968 n. 108 stabilisce che “Le liste dei candidati per ogni collegio devono essere presentate alla cancelleria del tribunale […] dalle ore 8 del trentesimo giorno alle ore 12 del ventinovesimo giorno antecedenti quelli della votazione”. Alle ore 12 dell’ultimo giorno disponibile la cancelleria, come per legge, ha chiuso e non ha accettato la presentazione delle liste del Pdl, il cui delegato, a detta sua, si era improvvisamente assentato per “andare a mangiare un panino”.
Ebbene, il Governo emana un decreto legge (5 marzo 2010 n. 29) intitolato “Interpretazione autentica di disposizioni del procedimento elettorale e relativa disciplina di attuazione”, il cui art. 1 (comma 1°) dice: “Il primo comma dell’art. 9 della legge 17 febbraio 1968 n. 108 si interpreta nel senso che il rispetto dei termini orari di presentazione delle liste si considera assolto quando, entro gli stessi, i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del tribunale”.
Ora, se si pensa che il presupposto per l’emanazione di un atto normativo di interpretazione autentica è la presenza di una norma di legge che può essere interpretata in più modi, l’art. 1 di quel decreto suscita ilarità. Come si fa, infatti, a ritenere non chiara una norma che impone di presentare le liste dei candidati entro un orario di un dato giorno? E’ strano doverlo spiegare, ma l’identificazione di un orario (mezzogiorno) e di un luogo (cancelleria del tribunale) è quanto di più certo possa essere indicato da una norma di legge. Quando mai qualcuno ha espresso dubbi sulla portata di una simile norma?
Ancor più temeraria è la norma appositamente emanata per rimediare a quanto accaduto a Milano, dove il Pdl aveva presentato le liste prive addirittura di requisiti indispensabili quali l’autenticazione delle firme degli elettori. Il tutto in palese violazione dell’art. 9, comma 3°, della già vista legge n. 108/1968, secondo cui “La firma degli elettori deve avvenire su apposito modulo recante il contrassegno di lista, il nome e cognome, il luogo e la data di nascita dei candidati, nonché il nome, cognome, luogo e data di nascita del sottoscrittore e deve essere autenticata da uno dei soggettivi cui all’art. 14 della legge 21 marzo 1990 n. 53”.
In questo caso, la norma del decreto che ha risolto la situazione è l’art. 1, comma 2°: “Il terzo comma dell’art. 9 della legge 17 febbraio 1968 n. 108 si interpreta nel senso che le firme si intendono valide anche se l’autenticazione non risulti corredata da tutti gli elementi richiesti dall’art. 21, comma secondo, ultima parte, del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000 n. 445, purché tali dati siano comunque desumibili in modo univoco da altri elementi presenti nella documentazione prodotta. In particolare, la regolarità della autenticazione delle firme non è comunque inficiata dalla presenza di una irregolarità meramente formale quale la mancanza o la non leggibilità del timbro dell’autorità autenticante, dell’indicazione del luogo di autenticazione, nonché dell’indicazione della qualificazione dell’autorità autenticante, purché autorizzata”.
Ebbene, si noti l’ultima parte dell’art. 21, comma 2°, del citato d.p.r. 28 dicembre 2000 n. 445, che è addirittura il Testo Unico in materia di documentazione amministrativa: “[…] l’autenticazione è redatta di seguito alla sottoscrizione e il pubblico ufficiale, che autentica, attesta che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, previo accertamento dell’identità del dichiarante, indicando le modalità di identificazione, la data ed il luogo di autenticazione, il proprio nome, cognome e la qualifica rivestita, nonché apponendo la propria firma e il timbro dell’ufficio”. Sono gli elementi che, per legge, formano il procedimento di autenticazione di una firma. E per il decreto “salva liste”, la loro mancanza costituisce “irregolarità meramente formale”, categoria giuridica sconosciuta. Insomma, non ce n’è bisogno. Quel decreto ha stabilito che per presentare le liste non serve l’autenticazione delle firme, nonostante l’art. 9, comma 3°, L. n. 108/1968 invece la imponga.
In sintesi, da un lato il decreto interviene su una fattispecie dai contorni già certi (orario e luogo di presentazione delle liste). Dall’altro, abolisce l’obbligo di autenticazione delle firme degli elettori.
Dire che quel decreto è un atto di interpretazione autentica, è una spudorata menzogna. Di questa menzogna il Governo si è servito per giustificare la retroattività del decreto, che così ha reso possibile la presentazione delle liste del Pdl, maturata, a quanto pare, in una situazione di assoluta illegalità. Nascondendo, nel contempo (ma maldestramente per qualsiasi decente operatore del diritto), la violazione dell’art. 72 Cost., che affida in via esclusiva al Parlamento ogni regolamentazione della materia elettorale.