Ragazzo down vessato:
il tribunale di Milano
condanna dirigenti google
Bologna, 24 febbraio 2010
(avv. Antonello Tomanelli)
Ancora non si conoscono le motivazioni della sentenza con cui il tribunale di Milano ha condannato alcuni dirigenti di Google alla pena di 6 mesi per violazione della privacy, occasionata dalla pubblicazione in Rete, nel settembre 2006, di un noto video che mostrava alcuni studenti idioti picchiare e maltrattare un compagno di classe down, identificabile nei suoi tratti somatici. Ma si possono intuire.
Per affrontare senza equivoci la fattispecie, va premesso che un motore di ricerca come Google non può impedire la messa in Rete di un video girato da chicchessia. Qui un qualsiasi soggetto ha un accesso diretto alla Rete, potendo così immettervi tanto un messaggio scritto quanto un filmato precedentemente registrato. Nel nostro ordinamento non esiste (ancora) una norma che imponga ad un motore di ricerca di selezionare il materiale volta per volta “proposto” dalla massa di utenti. Di conseguenza, all'atto della messa in rete di un video, per un motore di ricerca non si pongono questioni di trattamento di dati personali.
Ma se il tribunale di Milano ha condannato i dirigenti di google per violazione della privacy, una ragione ci sarà. In attesa delle motivazioni della sentenza, l’unica norma che appare applicabile alla fattispecie è l’art. 167 del D.Lgs. n. 196/2003, meglio noto come Codice della Privacy, il quale al primo comma dispone: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell'articolo 129, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi”.
Insomma, la norma (penale) punisce chi effettua un trattamento illecito di dati personali. Scontato che nel caso specifico i “dati personali” sono i tratti somatici del ragazzo down vessato, e che l’hanno reso riconoscibile a migliaia di utenti, si tratta di vedere cosa debba intendersi per trattamento.
Il concetto di “trattamento” è piuttosto vasto. La definizione è offerta dall’art. 4, comma 1° lett. a), dello stesso Codice della Privacy: per trattamento di dati personali deve intendersi “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati”.
Ora, a quale di queste “operazioni” il tribunale di Milano ha pensato nel fondare la condanna?
Secondo quanto appurato, quel video è stato registrato tramite un telefonino e poi immesso in Rete i primi di settembre del 2006, rimanendovi fino al 7 novembre. Per ben due mesi, 5.500 persone hanno visto quello spettacolo raccapricciante, insieme ai tratti somatici della vittima.
Il punto è questo. Qualsiasi dirigente di google non può umanamente conoscere tutto ciò che viene istantaneamente immesso in Rete. Tuttavia, a partire dal momento in cui il video recante i dati personali (in questo caso, i tratti somatici del minore down vessato dai compagni di classe idioti) viene immesso in Rete, mantenuto e reso raggiungibile da chiunque, google esercita un’attività di conservazione di quei dati personali. In altre parole, il “trattamento” illecito (di dati personali) per cui i dirigenti di google nel caso specifico sono stati condannati è consistito non nell’aver “raccolto” quei dati personali, ma nell’averli mantenuti, appunto "conservati" per ben due mesi. Il tutto nonostante l’indignazione e il clamore suscitati dalla pubblicazione di quel video, e veicolati attraverso tutti i media, abbiano senz’altro messo quei dirigenti nella condizione di poter agevolmente comprendere l’entità della violazione.
E' questa la violazione contestata, e che ha portato alla condanna di quei dirigenti. Questi, dal momento in cui hanno saputo che girava quel video (questione di ore) palesemente lesivo della privacy di quel ragazzo, avrebbero dovuto immediatamente provvedere alla sua rimozione, vale a dire alla cancellazione di quei dati personali, senza attendere due mesi. Senza, cioè, dar vita ad una attività di conservazione di quei dati personali.
Ciò in quanto quei dati personali avrebbero potuto essere da google conservati solo con il consenso del ragazzo vittima di quelle terribili vessazioni testimoniate dal video. E’ la violazione espressamente richiamata dall’art. 167, laddove per trattamento illecito intende quello effettuato in violazione (anche) dell’art. 23, che impone il consenso dell’interessato ad ogni trattamento.
Di conseguenza, paiono fuori luogo le accuse di “attentato alla libertà” che google sta indirizzando nei riguardi del tribunale di Milano. Da quanto si può per ora capire, il giudice non ha inflitto la condanna per il solo fatto che quel video è stato immesso in Rete. La sola messa in Rete del video non può far sorgere alcuna responsabilità in capo a google. La condanna è stata inflitta per l’evidente disinteresse manifestato da google, che ha reiterato un’attività di conservazione di dati personali, consentendo così la consultazione del video e l’ulteriore diffusione di quegli stessi dati.