Dalla Vigilanza
il divieto di informazione
in campagna elettorale
Bologna, 10 febbraio 2010
(avv. Antonello Tomanelli)
La collettività va costantemente tenuta informata attraverso la diffusione delle notizie, generalmente acquisite attraverso i telegiornali. Quelle di una certa importanza e complessità confluiscono nei programmi di approfondimento informativo. La loro caratteristica principale è l’analisi di un fatto, che è affidata a un giornalista. Questa è l’informazione.
Tuttavia, va garantita ai soggetti politici la possibilità di raggiungere l’elettore e guidarlo nelle sue scelte. Ciò avviene attraverso specifici programmi, dove ad essere protagonisti sono i politici, i quali esprimono valutazioni. Questa è la comunicazione politica.
In altre parole, alla collettività vanno continuamente forniti gli elementi obiettivi per poter esercitare, con cognizione di causa, la propria sovranità attraverso il voto elettorale. E, nel contempo, si deve offrire ai politici la possibilità di orientare la scelta dell’elettore, il quale deciderà volta per volta a chi delegare l’esercizio della sovranità. Ma è evidente come in un ordinamento democratico, quello tra “informazione” e “comunicazione politica” è e deve rimanere un rapporto tra regola ed eccezione.
Tuttavia, da più di un decennio si assiste ad una sorta di recupero della comunicazione politica a scapito dell’informazione, attraverso l’esasperazione del concetto di par condicio. Nei programmi di approfondimento informativo si impone la presenza dei soggetti politici, equamente rappresentati, che finiscono per ridimensionare notevolmente il ruolo del giornalista. Si arriva al paradosso che un fatto viene illustrato non dal giornalista, che è vincolato al dovere deontologico di verità, ma dai soggetti politici, i quali non solo possono mentire, ma ne hanno tutto l’interesse. Il programma di approfondimento informativo diventa così un programma di comunicazione politica. E il giornalista che nel corso del programma rivendica il proprio ruolo autonomo viene tacciato di faziosità.
In sostanza, il rapporto appare rovesciato. E’ l’informazione a costituire l’eccezione, e la comunicazione politica la regola. In questo modo, il flusso informativo indirizzato alla collettività viene continuamente mediato dalle forze politiche. Con i risultati che si possono immaginare.
Il Provvedimento emanato questa notte dalla Commissione Parlamentare di Vigilanza Rai rappresenta il naturale sbocco di un processo in atto da anni. All'art. 6, comma 4°, si legge testualmente: "Le trasmissioni di informazione, con l'eccezione dei notiziari, a partire dal decorrere del termine ultimo per la presentazione delle candidature, sono disciplinate dalle regole proprie della comunicazione politica". Niente approfondimento informativo, dunque, ma solo "tribune elettorali", le quali, insieme ai messaggi autogestiti, costituiscono il più pregnante esempio di comunicazione politica.
Poco importa a costoro se il provvedimento fa a pugni con la legge n. 28 del 2000, la quale è piuttosto chiara (a meno di ammettere una totale incapacità di capire la legge) nell’affermare un sacrosanto principio: in campagna elettorale i programmi di approfondimento informativo devono andare in onda. Lo si deduce chiaramente dall’art. 5, comma 1°, che impone alla Commissione di Vigilanza Rai (e all’Authority per le reti private) di definire “non oltre il quinto giorno successivo all’indizione dei comizi elettorali, i criteri specifici ai quali, fino alla chiusura delle operazioni di voto, debbono conformarsi la concessionaria pubblica e le emittenti radiotelevisive private nei programmi di informazione, al fine di garantire la parità di trattamento, l’obiettività, la completezza e l’imparzialità dell’informazione”.
Vale a dire: in campagna elettorale i programmi di informazione possono subire limitazioni, in modo da non suggestionare l’elettore che sta per recarsi alle urne, ma non possono essere soppressi. Invece, è proprio quello che ha disposto la Commissione di Vigilanza Rai. Che, tecnicamente, è un organo amministrativo, e come tale non può emanare provvedimenti generali in palese contrasto con una legge. E’ come se un dirigente del ministero dell’Interno, anziché limitarsi ad emanare una circolare su come organizzare gli uffici immigrazione delle questure, disponesse la soppressione di quegli uffici e il divieto di rilascio dei permessi di soggiorno agli stranieri.
In definitiva, il provvedimento affida esclusivamente ai telegiornali il compito di informare la collettività. E' noto quanto il telegiornale sia, per definizione, inidoneo a garantire un qualsiasi approfondimento, quindi la piena acquisizione di un fatto. Si consideri poi il telegiornale Rai più seguito, ossia il Tg1. E' diretto da un giornalista che più volte, tramite specifici "editoriali", ha abdicato alla propria autonomia schierandosi apertamente con il presidente del Consiglio e classificando come gossip notizie sul premier di indubbio interesse pubblico, così da giustificarne l'occultamento. E, più in generale, ha pubblicamente sposato le tesi di quella maggioranza parlamentare che oggi in Commissione concepisce il provvedimento in questione.
Come ci si possa attendere che il sistema garantisca alla collettività, in quest'ultimo mese e mezzo che ci separa dalle elezioni regionali, un'informazione puntuale e obiettiva, è destinato a rimanere un mistero.