Dalle escort ai mafiosi:
quando il politico bullo
diventa un disperato

Bologna, 30 novembre 2009

(avv. Antonello Tomanelli)

Un uomo disperato che dà segni di squilibrio. Così si potrebbe definire, senza enfasi, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi da quando la Corte Costituzionale gli ha bocciato il lodo Alfano, l’ennesima legge che impediva ai giudici di processarlo come un qualsiasi cittadino. Ma siccome è uno che non si dà mai per vinto, ecco che tenta di convincere i suoi ad approvargli una legge che allontanerebbe lo spettro di una condanna che certamente gli arriverebbe dal processo ripreso a Milano sulla corruzione di David Mills, già condannato in appello. Una condanna, quella per corruzione, che porterebbe alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, cosa che gli impedirebbe persino di andare a votare.

Lo fa insieme ai suoi avvocati ideando una legge semplicemente criminogena. Senza prevedere miliardi di Euro in più ogni anno per la giustizia, senza raddoppiare il numero di magistrati e cancellieri, senza intervenire sui farraginosi meccanismi previsti dal codice (che, se sapientemente utilizzati, allungano a dismisura i tempi di un processo), vuole introdurre nell’ordinamento un istituto giuridico assolutamente inedito, la prescrizione processuale, imponendo ai giudici di celebrare ciascun grado di giudizio in meno di 2 anni, pena la morte del processo. Che è come chiedere a Michael Schumacher di andare da Bologna a Milano in meno di un’ora con una Fiat 500.

Ma ciò che sta facendo sbandare pericolosamente Berlusconi sono le notizie che filtrano da alcune procure distrettuali antimafia. Milano, Firenze, Palermo. Alcuni pentiti mafiosi collaborano con i magistrati, svelando i suoi rapporti con esponenti mafiosi del calibro di Totò Riina. Addirittura gli ritagliano un ruolo (non si sa ancora di che tipo) nelle stragi mafiose del ’93. Ovviamente, i giornali ne parlano. Il quotidiano “Libero” dà in prima pagina la notizia che a Firenze è formalmente indagato per mafia, notizia smentita dal procuratore capo. E su “Repubblica” Giuseppe D’Avanzo e Attilio Bolzoni si incaricano di ricostruire i rapporti tra Berlusconi e la mafia.

Berlusconi non se la prende con “Libero”, che ha riportato una notizia falsa in quanto ufficialmente smentita (e, per ovvi motivi, diffamatoria). Se la prende con Repubblica, che si è limitata a riportare e commentare i verbali di interrogatorio dei pentiti, senza fare parola di attuali indagini formali su Berlusconi. E intraprende iniziative giudiziarie solo nei confronti del quotidiano del Gruppo L’Espresso.

Non poteva fare altrimenti. Per chi ha un patrimonio di diversi miliardi di Euro, l’unica via d’uscita di fronte a simili accuse è l’ostentazione dello sdegno e la pubblicizzazione delle iniziative giudiziarie. Anche a costo di dover pagare, a causa persa, decine di migliaia di Euro agli avvocati del Gruppo L’Espresso e centinaia di migliaia ai propri. Vediamo perché è una causa persa.

L'articolo “incriminato” è quello scritto da Giuseppe D’Avanzo, assieme ad Attilio Bolzoni, su “La Repubblica” di sabato 28 novembre intitolato “L’asso nella manica dei boss Graviano, i soldi del Cavaliere”. Riproduce ampi brani delle dichiarazioni che il mafioso Gaspare Patuzza ha reso ai magistrati di Firenze, anche con riferimento alle stragi mafiose del ’93. E nelle quali svela confidenze fattegli da alcuni boss mafiosi, tra i quali Filippo Graviano, il quale ha investito cospicue somme di denaro in Fininvest. Alla fine D’Avanzo esorta Berlusconi a chiarire le origini del proprio patrimonio.

Che le origini del patrimonio dell’impero di Berlusconi siano quantomeno misteriose è noto a tutti. La procura di Palermo, indagando su Marcello Dell’Utri (che verrà poi condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa), si imbatte in misteriosi flussi di denaro che tra gli anni ’70 e ’80 sono giunti all’attuale presidente del Consiglio. Allo scopo di chiarire l’origine di tali flussi, nel 1999 i magistrati di Palermo affidano una perizia al dottor Francesco Giuffrida, dirigente della Banca D’Italia. Dopo alcuni mesi di lavoro, Giuffrida concluderà che circa 250 milioni (di attuali Euro, ma che si riferiscono agli anni ’70) hanno “provenienza sconosciuta”. Una conclusione che nemmeno il consulente di parte di Dell’Utri (il prof. Paolo Iovenitti) smentirà, qualificando quelle operazioni “potenzialmente non trasparenti”.

Il tutto va coniugato con quanto riferito da vari pentiti di mafia circa un interessamento di Berlusconi allle stragi mafiose del ’93. In proposito, va ricordato un particolare non trascurabile. Berlusconi e Dell’Utri nel 1998 furono indagati dalla procura di Firenze per le stragi del ’93. Su richiesta del pubblico ministero, il gip dispose l’archiviazione. Ma è interessante notare che il gip, archiviando, scrisse che “i soggetti di cui si tratta [Dell’Utri e Berlusconi] hanno intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato”, qualificando tali rapporti “compatibili con il fine perseguito dal progetto”. E concludendo che “sebbene l’ipotesi iniziale abbia mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità, gli inquirenti non hanno potuto trovare, nel termine massimo di durata delle indagini preliminari, la conferma delle chiamate de relato e delle intuizioni logiche basate sulle suddette omogeneità”.

Una conclusione agghiacciante, per un presidente del Consiglio. Significa che Berlusconi non è stato processato per il reato di concorso in strage solo per la scadenza dei termini di durata massima delle indagini preliminari, che ha impedito di approfondire quanto suggerito da elementi univoci. Ora, però, quelle indagini potrebbero essere riapparse in base all’art. 414 del codice di procedura penale, che consente al gip di autorizzare “la riapertura delle indagini su richiesta del pubblico ministero motivata dalle esigenze di nuove investigazioni”. E le “esigenze di nuove investigazioni” potrebbero venire proprio dalle dichiarazioni dei nuovi pentiti.

Ebbene, D’Avanzo, nei suoi articoli apparsi su Repubblica, non ha fatto altro che riportare dichiarazioni di pentiti mafiosi contenuti in fonti ufficiali, come vanno considerati i verbali di interrogatorio condotti dai pubblici ministeri, che sono organi dello Stato. Anche se Berlusconi, come è prevedibile, continuerà a dire che quelle dichiarazioni sono calunniose, D’Avanzo non potrà mai essere ritenuto colpevole di diffamazione. Ciò in quanto chi riporta fedelmente il contenuto di fonti ufficiali rispetta sempre il requisito della verità, che è il caposaldo del diritto di cronaca.

Tra l’altro, è da sottolineare la diligenza con cui D’Avanzo espone la questione. Riportando qua e là le frasi dei pentiti, chiarisce autonomamente che per arrivare ad una condanna “occorrono, come li definisce la Cassazione, riscontri intrinseci ed estrinseci, corrispondenze delle parole con fatti accertabili” e che “sarà molto difficile portare in un’aula di tribunale l’impronta digitale di Silvio Berlusconi nelle stragi del 1993”. Un’affermazione che testimonia l’equilibrio con cui l’articolista ha affrontato la delicata questione e che esclude a priori la possibilità di addebitargli la violazione del requisito della continenza formale, che attiene alle modalità di comunicazione della notizia, l’unico requisito che Berlusconi potrebbe, potenzialmente, ritenere violato nell'articolo incriminato.

Ma solo potenzialmente. E’ vero che nel comunicare la notizia il giornalista deve assumere un tono neutro, asettico, dovendo consegnare al lettore il “fatto” nella sua originaria obiettività. Ma è anche vero che ciò non può valere negli articoli che si propongono di effettuare una ricostruzione storica, in quanto tale relativa a fatti passati e in gran parte già acquisiti dalla collettività, come nel caso in questione. Qui il diritto di cronaca si fonde con il diritto di critica. Quindi, se da un lato occorre sempre la più assoluta aderenza al dato fattuale (ossia la corrispondenza tra quanto scrive D’Avanzo e quanto contenuto nei verbali degli interrogatori), dall’altro le opinioni, le considerazioni logiche, nonché lo stesso stile giornalistico dell’articolista, possono legittimamente accompagnare la descrizione dei fatti, nella misura in cui non ritaglino fatti nuovi e privi di collegamento con una fonte ufficiale.