Berlusconi a Ballarò
rivendica lo squilibrio
tra i poteri dello Stato

Bologna, 28 ottobre 2009

(avv. Antonello Tomanelli)

Forse non rappresenterà un caso di uso criminoso della tv pubblica pagata con i soldi dei contribuenti. Forse sarà l’indice di una condizione mentale del presidente del Consiglio non proprio ottimale. E forse Giovanni Floris avrebbe potuto fare di più, avendo dalla sua la Carta dei Doveri, che gli impone di non subordinare la propria responsabilità verso i cittadini “ad interessi di altri e particolarmente a quelli dell’editore, del Governo o di altri organismi dello Stato”. Sta di fatto che, per quanto ci si sforzi, riesce difficile ipotizzare che l’irrompere del capo del Governo in una trasmissione di approfondimento informativo all’infuori di un formale invito possa essere ritenuto conforme alle regole di una democrazia.

Ciò in quanto i monologhi televisivi delle alte cariche dello Stato sono sì previsti dalla legge, ma in tutt’altro contesto. L’art. 33 del D.Lgs. n. 177 del 2005 (Testo Unico della Radiotelevisione) stabilisce che “La società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo è tenuta a trasmettere i comunicati e le dichiarazioni ufficiali del presidente della Repubblica, dei presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati, del presidente del Consiglio dei Ministri e del presidente della Corte Costituzionale, su richiesta degli organi medesimi, facendo precedere e seguire alle trasmissioni l’esplicita menzione della provenienza dei comunicati e delle dichiarazioni” (comma 2°). E che “Per gravi ed urgenti necessità pubbliche la richiesta del presidente del Consiglio dei Ministri ha effetto immediato. In questo caso egli è tenuto a darne contemporanea comunicazione alla Commissione Parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi” (comma 3°).

La ratio della norma è evidente. Le massime cariche dello Stato possono disporre del mezzo radiotelevisivo per rivolgersi alla collettività, ma solo in casi eccezionali e nell’ottica del perseguimento dell’interesse generale. Al di fuori di tale ipotesi, qualsiasi loro intervento si risolverebbe in un’indebita interferenza con la funzione informativa, che è prerogativa del giornalista. Il monologo di Berlusconi non poggiava sull’ombra di nemmeno uno di quei presupposti di legge. Ieri sera a “Ballarò” per venti minuti il presidente del Consiglio si è impadronito del mezzo televisivo e ha alterato la scaletta di una trasmissione di approfondimento informativo.

Il tutto, poi, allo scopo di attaccare un potere dello Stato: il potere giudiziario. Chiamando “comunisti” quei giudici (di primo grado e ora anche di appello) che hanno sostanzialmente accertato la sua posizione di corruttore nel processo Mills. Anche Silvio Berlusconi sarebbe stato condannato, se il lodo Alfano, recentemente dichiarato incostituzionale dalla Consulta, non avesse a suo tempo costretto i giudici a stralciare dal processo la sua posizione.

Non c’è dubbio che un simile comportamento posto in essere da chi guida un potere dello Stato (quello esecutivo) attua uno squilibrio tra i poteri costituzionali. Fin dai tempi di Platone, l’indipendenza dei giudici dal potere politico è sempre stata considerata un caposaldo della democrazia, congegnata proprio allo scopo di impedire gli abusi del potere politico. E quando il potere politico tenta di limitare la funzione giudiziaria, il sistema democratico registra una crepa.

Con quella telefonata il presidente del Consiglio non solo ha abusato degli spazi televisivi che l’ordinamento mette a disposizione delle massime cariche dello Stato in casi eccezionali. Ha anche attuato una evidente indebita interferenza nei riguardi del potere giudiziario, che l'art. 104 della Costituzione vuole “autonomo e indipendente da ogni altro potere”, con buona pace quindi del principio di separazione dei poteri. Per rendercene conto, proviamo a immaginare cosa sarebbe successo se all’indomani dell’approvazione di quel disegno di legge governativo poi diventato lodo Alfano grazie al voto delle Camere, il presidente della Corte Costituzionale avesse telefonato in diretta ad una trasmissione di approfondimento informativo come Ballarò e avesse attaccato Berlusconi accusandolo di aver preparato una legge ad personam incostituzionale per sfuggire alla giustizia.

Una telefonata che certamente avrebbe rappresentato un’indebita interferenza nei riguardi del potere esecutivo da parte della Corte Costituzionale, che giudica sulla legittimità costituzionale delle leggi, ma solo quando gli arrivano sul tavolo in seguito ai ricorsi di costituzionalità, senza alcuna possibilità di esprimere commenti al di fuori delle proprie sedi istituzionali. Così come dovrebbe fare qualsiasi soggetto che ricopre una carica dello Stato con riferimento alle sentenze della magistratura. Si sostanzia anche in questo il principio della separazione dei poteri.

Ma quella ipotetica telefonata del presidente della Corte Costituzionale avrebbe rappresentato un’iniziativa simmetrica a quanto fatto ieri da Berlusconi, che ha accusato i giudici che si sono occupati del processo Mills (e che hanno sostanzialmente accertato, in primo e in secondo grado, la sua qualità di corruttore condannando l’avvocato inglese) di essere “comunisti” e di volerlo perseguitare. Perché il già citato art. 33 del D.Lgs. n. 177 del 2005 (Testo Unico della Radiotelevisione) annovera anche il presidente della Corte Costituzionale, al pari del presidente del Consiglio, tra quelle cariche dello Stato che in casi eccezionali possono usufruire di spazi televisivi del servizio pubblico.