Un giudice condanna Fininvest:
scatta la rappresaglia
di Canale5

Bologna, 17 ottobre 2009

(avv. Antonello Tomanelli)

Quello che si è visto ieri mattina, 16 ottobre, sugli schermi di Canale5 è solo uno degli effetti perversi del macroscopico conflitto di interessi in cui si trova Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, leader della maggior forza politica rappresentata in Parlamento e, nel contempo, padrone di un impero mediatico che produce informazione. Mattino Cinque, la trasmissione di Canale5, ha mandato in onda un servizio su Raimondo Mesiano, magistrato del tribunale di Milano, quello che pochi giorni fa ha condannato la Fininvest in sede civile ha risarcire alla Cir di Carlo De Benedetti il danno (quantificato in 750 milioni di Euro) prodotto dalla corruzione, accertata con sentenza penale passata in giudicato nel 2007, di quei giudici romani che occupandosi del “Lodo Mondadori” avevano assegnato il colosso editoriale alla Fininvest con una sentenza scritta nello studio legale di Cesare Previti, avvocato di Berlusconi.

Mattino Cinque ha mandato in onda un servizio a firma di un’aspirante giornalista, il cui nome non riportiamo per mera pietà cristiana. E’ una sorta di candid camera, che spia il giudice per le vie di Milano in atteggiamenti assolutamente ordinari: passeggia, siede dal barbiere, si rilassa su una panchina. Mentre scorrono le immagini, la voce fuori campo insiste sui gesti ripetitivi del giudice mentre attende l’apertura del barbiere (“avanti e indietro, avanti e indietro”), ne sottolinea la dipendenza dal fumo, denuncia la sua “stravaganza”. Il servizio si chiude così: “Guardatelo seduto su una panchina: camicia, pantalone blu, mocassino bianco e calzino turchese, di quelli che in tribunale non è il caso di sfoggiare”.

Chiunque, persino la stessa aspirante giornalista che ha confezionato il servizio, capirebbe che qui non vi è alcuna “notizia”. Molti vedono in quel servizio un pestaggio mediatico, una sorta di intimidazione a futura memoria per chiunque pregiudicherà gli interessi del Gruppo Fininvest. In ogni caso, è certo che quel servizio non vuole soddisfare alcuna esigenza di cronaca, ma solo fare ironia, stolta e di dubbio gusto, su un soggetto che ha dato una mazzata al gruppo Fininvest. Una mazzata che peraltro il giudice Mesiano non poteva non dare, visto che il fatto illecito (la corruzione) posto alla base della richiesta di risarcimento avanzata dalla Cir era stato definitivamente accertato in sede penale. Circostanza che il servizio si guarda bene dal riferire.

Nessuna esigenza di cronaca, ma solo la volontà di ironizzare sul giudice Mesiano. Diritto di satira, dunque?

A ben vedere, la vicenda riecheggia un po’ quella della satira sul regista Carlo Vanzina, che negli anni ’80 fu bersagliato dal “Megasalvishow” del comico Francesco Salvi, in onda su “Italia 1”. Il Vanzina appariva sommerso da metri di pellicola, mezzo addormentato, mentre balbettava frasi sconnesse. Faceva uso di una pipa che a volte perdeva, a volte si infilava nell’orecchio. Giocherellava con la cinepresa e faceva boccacce. Diceva di voler fare “un film sulla pipa” e che il suo pubblico nei cinema “entra distratto ed esce distrutto”. Diceva di essere molto colto, tanto da aver acquistato “i diritti del film Dagli appennini alle Ande di Kipling”, e che voleva fare “un film giallo” mentre arrotolava sulla cinepresa un metro giallo da sarto. Cercava spesso di cambiare i canali della tv usando la cinepresa.

La satira fu ritenuta illegittima dal Pretore di Roma, che sottolineò la mancanza di una reale, effettiva dimensione pubblica del regista Vanzina tale da poter essere oggetto di satira. In altre parole, il nome del noto regista venne strumentalizzato al solo scopo di creare la figura di un povero scemo. Ed è più o meno quello che è accaduto al giudice Mesiano nel servizio mandato in onda da Mattino Cinque.

La satira può colpire solo il personaggio pubblico. Ed è legittima quando in essa è riscontrabile un nesso di coerenza causale tra la qualità della dimensione pubblica del personaggio preso di mira e il contenuto del messaggio satirico. Si parte, cioè, dal presupposto che tra il personaggio colpito dalla satira e il pubblico debba esserci un circuito di intesa che consenta al pubblico stesso di cogliere il messaggio satirico, che così assume un significato.

Ma tra il giudice Raimondo Mesiano e il pubblico quel “circuito di intesa” proprio non esiste, perché manca il presupposto fondamentale: Raimondo Mesiano non è un personaggio pubblico, non ha alcun rapporto con la collettività. Ed è impossibile imbastire un qualsiasi messaggio satirico che possa essere in coerenza causale con una dimensione pubblica inesistente. Sarebbe come cercare di moltiplicare un numero per zero.

Ne deriva che al giudice Raimondo Mesiano vanno garantite quella riservatezza e (per dirla in termini molto di moda) quella privacy che spetta ad ogni cittadino privo di qualsiasi rapporto con la collettività. Se l’aver pronunciato quella importante sentenza gli impedisce di pretendere che i suoi dati personali (nome, cognome, fattezze fisiche) non vengano diffusi, non sussiste alcun interesse pubblico a vederlo mentre gira per strada o siede sulla poltrona del proprio barbiere o su una panchina. E, a maggior ragione, a vederlo rappresentato in maniera volutamente ridicola (si pensi al particolare dei calzini color turchese). Sussistono, quindi, tutti gli estremi per configurare una violazione del diritto alla riservatezza e il reato di diffamazione. Scontata la violazione della deontologia giornalistica.