Le dieci domande di Repubblica:
e Berlusconi avvìa
una causa persa
Bologna, 29 agosto 2009
(avv. Antonello Tomanelli)
I casi sono due. O Silvio Berlusconi non possiede più la lucidità necessaria a fargli assumere le decisioni che lo riguardano, oppure è consigliato nel peggiore dei modi. La citazione a comparire dinanzi al tribunale civile di Roma, che i legali di Berlusconi hanno notificato al Gruppo Editoriale L’Espresso, al direttore del quotidiano “La Repubblica” Ezio Mauro e al giornalista Giampiero Martinotti, introduce quello che potrebbe tranquillamente definirsi un processo farsa, o causa persa. Berlusconi ce l’ha con quelle dieci domande che il quotidiano romano gli rivolge pubblicamente e quotidianamente dal 26 giugno. Ad avviso dei suoi legali, la pubblicazione di quelle domande costituisce una diffamazione, che gli ha causato un danno quantificabile in un milione di Euro.
Da quanto trapelato, nell’atto di citazione i legali di Berlusconi sostengono che le dieci domande di Repubblica sono “domande retoriche che non mirano ad ottenere una risposta del destinatario, ma sono volte ad insinuare nel lettore l’idea che la persona ‘interrogata’ si rifiuti di rispondere”. Pertanto, sarebbero “palesemente diffamatorie” poiché attraverso di esse “il lettore è indotto a pensare che la proposizione formulata non sia interrogativa, bensì affermativa ed è spinto a recepire come circostanze vere realtà di fatto inesistenti”.
E’ evidente che simili affermazioni lascerebbero interdetto il pubblico di qualsiasi paese che si accinga ad intraprendere un faticoso cammino verso la democrazia. Che una cosa del genere possa essere accaduta in Italia, paese con una delle migliori Costituzioni del mondo e culla del Diritto, è forse il segno di una degenerazione istituzionale arrivata ai massimi livelli, dove il Potere si esprime con l’arroganza e si accompagna all’ignoranza. Vediamo perché.
E’ ormai accertato che da parecchi anni Berlusconi, che come capo del Governo italiano e proprietario di un impero mediatico ha il potere di incidere sulla vita di una sessantina di milioni di italiani, nella propria vita privata sbanda paurosamente. Frequenta quelle che con indulgenza i media hanno finora chiamato escort, ma che altro non sono che sconosciute puttane a pagamento, che fa entrare nei palazzi del Potere e le cui prestazioni lo inducono addirittura a disertare gli incontri ufficiali. A Villa Certosa, la residenza estiva in Sardegna, organizza parate dove la proporzione tra maschi e femmine è di uno a cinquanta. Talvolta per trasportare quelle ragazze usa i voli di Stato. Alcune di esse vengono ricompensate con regali vari, ma anche con un posto al parlamento europeo. La moglie Veronica Lario afferma che frequenta minorenni. Una di queste frequentazioni è la nota Noemi, sulla cui origine, incalzato dalla stampa, cambia versione almeno cinque volte.
Repubblica si fa interprete delle perplessità che, a questo punto, attanagliano una grossa fetta di italiani. Consapevole che il presidente del Consiglio non avrà mai il coraggio di sottoporsi ad un serio e franco dibattito pubblico, a partire dal 26 giugno, ossia due mesi dopo la deflagrazione del “caso Noemi” con annessi e connessi, gli pone quelle dieci domande. Vale a dire (e questo è un punto fondamentale per capire che Berlusconi ha intentato una causa persa in partenza), sono domande che prendono spunto da fatti di cronaca già diffusi e pertanto acquisiti dalla collettività.
E’ in gran parte qui la soluzione della questione da un punto di vista giuridico. Nella citazione i legali di Berlusconi attaccano utilizzando argomenti giuridici che, al limite, si adattano al diritto di cronaca, quando invece la fattispecie, riguardando articoli giornalistici che intervengono su un fatto già acquisito dalla collettività, va analizzata secondo i principi che regolano il diritto di critica.
Nella cronaca, da intendersi come il momento in cui una notizia viene acquisita dalla collettività, si esige un linguaggio neutrale, asettico, che comunica il fatto nella sua obiettività, e che non lascia spazio al giudizio soggettivo dell’articolista. Chi non rispetta tale canone vìola il requisito della continenza formale. Una violazione che nella maggior parte dei casi si manifesta proprio con le cosiddette “insinuazioni”, che è poi la categoria cui i legali di Berlusconi alludono nell’atto di citazione. Nelle “insinuazioni” l’articolo giornalistico, attraverso un particolare uso del linguaggio, induce il lettore ad attribuire a qualcuno fatti che non gli si possono in alcun modo attribuire, descrivendo insieme al fatto principale un ulteriore fatto, generalmente più grave e al quale il soggetto protagonista dell’articolo è estraneo, ma inducendo il lettore a riferirlo a quel soggetto.
Ora, nella critica tutto ciò non può valere. La critica è fondamentalmente un attacco, che addirittura (così dice la giurisprudenza, ma a ben vedere è una conseguenza logica) non deve nemmeno sottostare al requisito della verità nella misura che si esige nella cronaca, in quanto frutto di un giudizio soggettivo. Stando così le cose, è chiaro che ogni critica racchiude in sé, e legittimamente, ben più di una semplice “insinuazione”. L’importante, sempre per dirla con la giurisprudenza, è che la critica non sconfini nell’offesa gratuita.
Ma anche in un'ottica di utilizzo (comunque pretestuoso, in quanto riferibile al diritto di cronaca) del requisito della continenza formale, i legali di Berlusconi portano argomentazioni a dir poco infondate.
Innanzitutto, accusano Repubblica di insinuare, con le dieci domande, “nel lettore l’idea che la persona ‘interrogata’ si rifiuti di rispondere”. Come è noto, la diffamazione, di cui l’atto di citazione accusa Repubblica, consiste nella lesione della reputazione di un individuo. Si diffama uno dandogli del ladro, dell'assassino, del pedofilo, del truffatore, del maniaco, etc., non certo accusandolo di “rifiutarsi di rispondere” a delle domande. Dove sia qui la lesione della reputazione di Berlusconi rimarrà un mistero.
Poi, sempre secondo gli avvocati di Berlusconi, “il lettore è indotto a pensare che la proposizione formulata non sia interrogativa, bensì affermativa”. In effetti, l’unico modo per attribuire effetti diffamatori ad una domanda è trasformarla in risposta. Un paradosso bello e buono, che ci porta ad esplorare campi della logica finora sconosciuti. E’ un po’ come accusare di rapina chi si presenta allo sportello della propria banca per chiedere un mutuo, e di estorsione chi chiede l’elemosina agli angoli delle strade.