'Rimbalza il clandestino':
la Lega propaganda
la superiorità razziale
Bologna, 26 agosto 2009
(avv. Antonello Tomanelli)
Non si può dire che Renzo Bossi, figlio del leader storico della Lega, da questi più volte definito “una trota”, si sforzi di smentire il giudizio del padre. Ora è alla ribalta per aver creato su Facebook un gioco che si chiama “Rimbalza il clandestino”, titolo sgrammaticato ma certamente frutto di buona fede, i cui partecipanti, cliccando col mouse su barconi che trasportano extracomunitari verso le nostre coste, ne provocano l’affondamento.
L’idea di questo poco brillante studente gli ha fatto guadagnare una denuncia per istigazione all’odio razziale, sporta da Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci. Qualsiasi persona dotata di un minimo di buon senso intuirebbe di trovarsi di fronte ad uno dei giochi più idioti mai concepiti dai tempi dei babilonesi. Tuttavia, la questione si rivela interessante dal punto di vista giuridico, per capire sulla base di quali principi questa “trota” rischia una condanna penale.
Il gioco del figlio del senatùr si ispira a quella drammatica realtà che è andata delineandosi negli ultimi tempi, da quando il ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni ha dato disposizioni alla marina militare di respingere già in acque internazionali i barconi carichi di disperati, senza alcun controllo sul loro effettivo status, dirottandoli verso Paesi (in primis la Libia di Gheddafi) che non hanno la minima idea di cosa siano i diritti umani. Un comportamento che l’Onu non ha esitato a definire in spregio al diritto internazionale.
Il gioco considera “clandestino” qualsiasi straniero si diriga verso le nostre coste, ma non ancora entrato nella sfera della sovranità nazionale, che notoriamente incomincia dalle acque territoriali, che si estendono per 12 miglia nautiche dalla costa (poco più di 20 km). Tecnicamente, chi su una barca è al di fuori delle acque territoriali, non può essere considerato “clandestino”. Sotto questo aspetto, non c’è dubbio che la messa online di un gioco che proclami vincitore chi impedisce al maggior numero di stranieri di toccare il suolo italiano, integra gli estremi della propaganda della superiorità di una presunta stirpe italica. E’ quindi applicabile l’art. 3, comma 1° lettera a, della legge n. 654 del 1975, che punisce “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.
Qualcuno potrebbe obiettare che, in generale, un gioco rientra nel concetto di satira, e che caratteristica della satira è proprio lo storpiamento del dato reale, tanto da giustificare l’estensione già in alto mare del concetto di “clandestino” a soggetti che comunque lo diventeranno nel momento in cui entreranno nelle acque territoriali italiane.
Il ragionamento sarebbe impeccabile, se non partisse da un presupposto errato: la possibilità di ricondurre la fattispecie del gioco del figlio di Bossi al concetto di satira. Ma non perché la satira debba necessariamente far ridere (e qui ridono solo gli stolti). Quel gioco non può essere ricondotto al genere della satira solo perché attua il rovesciamento della struttura tipica della satira, quantomeno di quella che, costituzionalmente tutelata (art. 33 Cost.), tende a prevalere, ad esempio, sul concetto di reputazione, impedendo il sorgere del reato di diffamazione.
La satira, infatti, nasce e si caratterizza come arte che sbeffeggia il potente, che esalta i difetti dell’uomo pubblico ponendolo sullo stesso piano dell’uomo medio. Come insegna Dario Fo, la funzione della satira è mettere “il re in mutande”. Colpendo dal basso verso l’alto, la satira è un formidabile veicolo di democrazia, perché diventa applicazione del principio di uguaglianza: il suddito mette in mutande il re avvicinandolo a sé.
Ossia, tutto il contrario di ciò che accade nel gioco ideato dal figlio di Bossi. Qui il “divertimento” (se così può chiamarsi) è a scapito del soggetto che occupa l’ultimo gradino della scala sociale. Un soggetto che, taglieggiato da gente senza scrupoli, si avventura su una casseruola in mare aperto per centinaia di miglia, disidratato, coperto di stracci e senza la minima garanzia di sopravvivenza. E il gioco premia chi quel soggetto lo fa affogare, in spregio a qualsiasi idea di integrazione e di uguaglianza.
In astratto, la satira può colpire chiunque, anche il più disperato. Ma chi concepisce e diffonde un simile messaggio satirico, dovrà fare i conti con le norme dell’ordinamento, che prevarranno sempre su quelle manifestazioni intellettive immeritevoli di tutela. Se infatti va riconosciuta una funzione sociale allo sbeffeggiamento del potente di turno, dell’uomo pubblico per eccellenza, che in tal modo viene smitizzato in omaggio al principio di uguaglianza, non altrettanto può dirsi quando la satira colpisce l’inerme, colui che più di ogni altro necessita di protezione. La satira può avere come obiettivo anche un animale, ad esempio un verme. E il verme, salvo rare eccezioni, non è un essere umano. Ma non può garantirsi alcuna tutela a quella satira che assimila l’essere umano a un verme.