Don Diana diffamato:
a Telelombardia nasce
il paradosso di Pecorella
Bologna, 3 agosto 2009
(avv. Antonello Tomanelli)
Quanto qualcuno che ricopre un ufficio come quello di presidente della Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle Ecomafie arriva a delegittimare la figura di Don Peppino Diana, assassinato il 19 marzo 1994 nella sua parrocchia di Casal di Principe, affermando che fu ucciso per non aver restituito armi che gli erano state affidate in custodia da un clan, allora significa che al peggio non c’è mai fine. Quel qualcuno è Gaetano Pecorella, storico avvocato di Silvio Berlusconi, ma anche di Nunzio De Falco, condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio del prete anticamorra, boss di quei Casalesi che sono leader incontrastati nello smaltimento illegale dei rifiuti.
Questi i fatti. Durante una trasmissione sulla mafia dell’emittente “Telelombardia” del 20 luglio scorso, Pecorella, a telecamere spente, tratta come un deficiente Alessandro Didoni, presente tra il pubblico, che gli chiede conto della sua decisione di difendere nel 2003 il boss De Falco, pur essendo all'epoca presidente della Commissione Giustizia alla Camera. Alla fine, reagendo al tentativo di Didoni di tenere alto il pericolante onore di Don Peppino, al cospetto di un attonito Nando Dalla Chiesa Pecorella esclama: “Ma lo sapete che Don Peppino Diana custodiva le armi della camorra?”.
Pecorella ha diffamato Don Peppino Diana. Tecnicamente è “offesa alla memoria di un defunto”. E’ il classico reato del vigliacco, che colpisce chi non può più difendersi. Per questo l’art. 597 del codice penale prevede la facoltà dei familiari dell’offeso di agire nei confronti del diffamatore. Ma è interessante vedere come, in questo caso, si è concretizzato il reato di diffamazione.
Per la verità, l’affermazione di Pecorella non è totalmente inventata. La sentenza di primo grado, emessa nel 2001 dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, aveva concluso che il clan dei De Falco aveva dato armi da custodire a Don Peppino, il quale, anziché restituirle, le aveva date al clan nemico degli Schiavone. Uno sgarro punito con la morte. Questo secondo il racconto del pentito Giuseppe Quadrano, sul quale i giudici di primo grado avevano totalmente basato la propria decisione, senza che sussistesse uno straccio di riscontro oggettivo.
Una decisione completamente ribaltata nel 2003 dalla Corte di Assise di Appello di Napoli, che ha considerato inattendibile il pentito Quadrano sottolineando l’impegno civile di Don Diana quale unica causa del suo assassinio. E nel 2004 la Corte di Cassazione ha confermato in toto la sentenza d’appello, che è così passata in giudicato. Don Peppino Diana fu assassinato non per aver tradito un clan della camorra, ma perché dava fastidio a tutta la camorra.
Essendo la magistratura un organo dello Stato, i suoi provvedimenti costituiscono fonte ufficiale. Chi riporta il contenuto di una fonte ufficiale non entra mai in conflitto con la verità. Tra l’altro, la magistratura è proprio quell’organo istituzionalmente deputato all’accertamento della verità. Al contrario, chi cita fatti che contrastano con quanto stabilito da una fonte ufficiale, comunica delle falsità. E se da tali falsità deriva la lesione della reputazione di un soggetto, commette il reato di diffamazione.
Le affermazioni di Pecorella non posso ricondursi al diritto di critica, poiché si basano su fatti falsi, in quanto contrastanti con quanto stabilito da quella fonte ufficiale che si colloca al vertice del sistema giudiziario: la Corte di Cassazione. Di qui la diffamazione di Don Peppino Diana, posto che per un sacerdote il custodire armi per conto di un clan camorristico è quanto di peggio si possa immaginare. Tuttavia, è interessante notare come la critica (illegittima) di Pecorella si basi su una logica aberrante, che a ben vedere conferisce alla vicenda un sapore quasi comico.
Pecorella è uno dei più convinti sostenitori della presunzione di non colpevolezza, quella sancita all’art. 27, comma 2°, della Costituzione (“L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”). Un principio che, interpretato in maniera estensiva, vuole soggetti che ricoprono importanti cariche pubbliche, condannati anche per gravi reati, inamovibili dai loro uffici fino alla sentenza definitiva della Cassazione, prescrizione permettendo. Per questo nel nostro Parlamento siedono soggetti già condannati in primo o secondo grado per corruzione o per reati di mafia, nonostante le relative sentenze ne abbiano ordinato, come per legge, l’interdizione dai pubblici uffici.
Ed ecco quello che potrebbe definirsi il paradosso di Pecorella. In omaggio al principio costituzionale di non colpevolezza si ritiene quantomeno scorretto ricordare la condanna di primo o di secondo grado di un soggetto, in quanto ininfluente sotto ogni punto di vista, dovendosi sempre attendere la decisione definitiva della Corte di Cassazione. Per Don Peppino Diana, invece, vale quello che stabilì una sentenza di primo grado, nonostante quella di secondo grado e la Cassazione abbiano stabilito il contrario. Secondo Pecorella un Dell’Utri può tranquillamente sedere in Parlamento, perché sulla sua condanna a 9 anni per mafia pende appello. Don Peppino, invece, custodiva armi della camorra perché così accertò una sentenza di primo grado, anche se poi cancellata da appello e cassazione.
Un paradosso, quello di Pecorella, che chiarisce meglio il carattere diffamatorio delle sue infelici affermazioni nei confronti di chi pagò con la vita il suo impegno civile contro la camorra. E che fa intuire da che parte stanno, nella difesa della legalità, soggetti investiti di altissime funzioni istituzionali.