Internet e diritto all'oblio:
quando la memoria
cade in prescrizione
Bologna, 28 giugno 2009
(avv. Antonello Tomanelli)
Il generale Rafael Videla, capo della giunta militare che governò l’Argentina tra il 1976 e il 1981, amava ripetere che “la memoria è sovversiva”. Il senso della frase è che niente che possa nuocere al Potere va ricordato. In un’ottica opposta, Roberto Scarpinato, magistrato antimafia della procura di Palermo, dice che “la memoria è come un indice puntato contro i crimini del Potere”.
Carolina Lussana, deputata della Lega, ha fatto propria la tesi del dittatore argentino presentando alla Camera dei Deputati il disegno di legge n. 2455, che vuole regolamentare il cosiddetto “diritto all’oblìo” su internet. Un disegno di legge che impedirebbe di mantenere in Rete, decorso un certo periodo di tempo, informazioni su persone che in precedenza hanno avuto guai con la Giustizia.
Molto sinteticamente, il diritto all’oblìo, creato da quella giurisprudenza degli anni ’70, attentissima ai diritti della persona, che lo collocò tra i diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost., è il diritto di ognuno a non vedere riproposti al pubblico fatti propri che in passato furono oggetto di cronaca. A volte è sufficiente una singola pubblicazione perché una notizia venga acquisita con completezza dalla collettività. Altre volte sono necessari approfondimenti, che fanno sì che la notizia perduri nel tempo. In ogni caso, a partire dal momento in cui il fatto è acquisito nella sua interezza, l’interesse pubblico alla sua riproposizione va scemando fino a scomparire, come se diventasse un fatto privato, e sorge il presupposto del diritto all’oblìo.
Una tutela sacrosanta. Ma che, per ovvi motivi, riguarda il “cittadino X”, il tossicodipendente che per procurarsi la dose rapinò la bottega, o l’anonimo funzionario che si fece corrompere per coprire un abuso edilizio. Non certo il politico di lungo corso, quello il cui rapporto con la collettività perdura nel tempo e che sarà sempre attenzionato dall’opinione pubblica, anche per ciò che riguarda il passato.
Ebbene, il disegno di legge presentato dalla deputata Lussana cancella questo principio. Detta una normativa generale sui termini massimi di permanenza in Rete della notizia di un procedimento penale a carico di chicchessia, pena una sanzione amministrativa da 5.000 a 100.000 Euro ai danni del proprietario del sito. I termini variano a seconda che si tratti di assoluzione o archiviazione (un anno), di amnistia o prescrizione (due anni), di una condanna definitiva. In quest’ultimo caso, i termini sono maggiori e dipendono unicamente dall’entità della pena inflitta con la sentenza di condanna. Ma, cosa più importante, non si guarda all’autore del fatto. La normativa riguarda tanto il pastore che uccide per riprendersi la pecora quanto il presidente del Consiglio.
E certo non rassicura l’art. 3, comma 3° lettera c), secondo cui la cancellazione dei dati sul web non può imporsi in riferimento a chi “esercita o ha esercitato alte cariche pubbliche, anche elettive, in caso di condanna per reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, allorché sussista un meritevole interesse pubblico alla conoscenza dei fatti”. Si badi bene: “per reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni”. Ciò significa, per fare un esempio noto, che se, come è ormai certo, interverrà la prescrizione in favore di Silvio Berlusconi una volta ripreso nei suoi confronti il processo Mills, per ora sospeso dal lodo Alfano ma che in primo grado ha accertato la posizione di Berlusconi quale corruttore, le relative notizie potranno rimanere in Rete per soli due anni. Perché quel reato Berlusconi non lo avrebbe commesso nell’esercizio di funzioni pubbliche.
Allo stesso modo, i fatti contenuti in un decreto di archiviazione, che ha ad esempio accertato che un noto politico è abituale commensale di un mafioso ma non la sua partecipazione a Cosa Nostra, potranno rimanere in Rete per non più di un anno.
In pratica, questo disegno di legge interviene a gamba tesa sul concetto di interesse pubblico, che viene graduato in maniera molto discutibile. In caso di condanna, la relativa notizia potrà essere mantenuta in Rete per un tempo che varia in funzione della pena comminata dal giudice, non dell’interesse obiettivo che suscita il fatto.
Ed ecco il paradosso. Chi è stato condannato all'ergastolo per aver avvelenato la moglie, rimarrà per sempre nei motori di ricerca. Invece, del più grave episodio di corruzione della storia della Repubblica non rimarrà più traccia passati cinque anni. A questo porterà la geniale trovata dell'onorevole Lussana. Le generazioni future sapranno tutto sui delitti di Erba, Garlasco, Cogne, Perugia e simili. Ma niente su una nuova Tangentopoli.
Si noti, poi, come la logica sottesa a questo disegno di legge ricalchi quella della prescrizione del diritto penale. La prescrizione è l’estinzione del reato per decorso del tempo senza che sia stata emanata sentenza definitiva. Si parte, cioè, dal presupposto che trascorso un certo periodo di tempo, che varia a seconda della gravità del reato, lo Stato rinuncia a punire l’autore perché non ne ha più l’interesse. Lo Stato prima o poi dimentica, tranne i reati punibili con l’ergastolo, che sono imprescrittibili.
Allo stesso modo, questo disegno di legge impone alla collettività, decorso un certo periodo di tempo che varia a seconda della pena inflitta, di non nutrire più interesse alla conoscenza di determinati fatti. Vengono subito alla mente i reati dei colletti bianchi, che certo non tagliano la gola ai propri familiari. La collettività viene quindi privata della memoria in ordine a fatti la cui conoscenza è indispensabile per poter giudicare una classe dirigente. E’ come se la memoria storica cadesse in prescrizione. Per dirla con il collega Guido Scorza, viene meno il "diritto alla Storia". Ritorna in mente la frase del generale Videla (“La memoria è sovversiva”). E niente più dito puntato contro i crimini del Potere, parafrasando il magistrato Roberto Scarpinato.
Ma vi sono altre considerazioni di ordine logico che non si possono tralasciare, e che svelano una evidente scarsa conoscenza dell’istituto del diritto all’oblio da parte dell’onorevole Lussana. E’ noto, infatti, che l’elemento caratterizzante il diritto all’oblio sta nella riproposizione di un fatto che fu oggetto di cronaca in passato, quando l’interesse pubblico intorno ad esso si è ormai sopito. Si badi bene: “riproposizione”. Vale a dire: si vìola il diritto all’oblio quando il gestore di un’informazione, senza che sussista un interesse pubblico, la ripropone alla collettività. Qui da parte del lettore vi è un’apprensione passiva del fatto già oggetto di cronaca in passato. Riproporre un fatto alla collettività significa elevarlo al rango di notizia, quindi pubblicarlo, ad esempio, su un quotidiano (o un periodico) oppure inserirlo nella home page del proprio sito.
Il disegno di legge in questione impedisce, invece, l’apprensione attiva di un fatto, la sua acquisizione attraverso un’attività di ricerca da parte dell'utente sugli appositi motori della Rete. E’ come se il legislatore imponesse a tutte le biblioteche di rendere inaccessibile gran parte del proprio materiale cartaceo, decorso un certo periodo di tempo.
Se davvero si fosse voluto tutelare il diritto all’oblio, non ci sarebbe stato alcun bisogno di creare una normativa ad hoc. I principi dell’ordinamento già tutelano la persona contro le indebite riproposizioni di fatti passati. Se chi ha picchiato un altro per un parcheggio vuole far sparire il proprio nome dalla cronaca locale di un sito male aggiornato, non ha che da rivolgersi al tribunale o al Garante della Privacy, che provvederà senza indugio a far rimuovere quei dati imbarazzanti, con rifusione delle spese legali, laddove non sussista più alcun interesse pubblico al loro mantenimento.
Pertanto, dire che il disegno di legge dell’onorevole Lussana vìola l’art. 21 Cost., che sancisce la libertà di espressione, è cosa scontata. C’è di peggio. Qui è la formazione culturale delle future generazioni ad essere messa a repentaglio. Prevedere una normativa che obblighi sempre e comunque, decorso un certo periodo di tempo, a rimuovere dal web una notizia a prescindere dalla valutazione concreta della sussistenza di un interesse pubblico al suo mantenimento, significa privare i posteri di un fondamentale strumento di controllo delle elités del Potere, notoriamente refrattarie ad un ricambio generazionale. Una privazione che si sostanzia nella violazione del principio di sovranità popolare, sancito all’art. 1 Cost., che vuole che i governanti siano scelti dal popolo, ma con cognizione di causa.
Non solo. Qui è anche il principio costituzionale di eguaglianza sostanziale ad essere violato. Dice l’art. 3, comma 2°, Cost.: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Quegli ostacoli, più che rimuoverli, il disegno di legge Lussana li frappone. Imporre automaticamente l’oblio su fatti e misfatti di indubbio interesse pubblico provocherebbe uno scollamento tra i detentori del Potere e chi conferisce loro il mandato a governare, col risultato di vanificare quella “partecipazione” di tutti i cittadini al governo del Paese, voluta dalla Costituzione e che è alla base di ogni democrazia.