Report ficcanaso:
la Gabanelli deferita
al Comitato Etico Rai

Bologna, 23 aprile 2009

(avv. Antonello Tomanelli)

Cosa abbiano fatto di male quelli di "Report" nella puntata del 5 aprile intitolata “Poveri noi!” è tutto da scoprire. Sta di fatto che Milena Gabanelli è stata deferita al Comitato Etico Rai, che da qualche anno è l’organo competente a proporre al direttore generale sanzioni a dipendenti e collaboratori che violano il codice etico Rai, un corpo di norme finalizzato a salvaguardare l’immagine dell’azienda. E’ quell’organo interpellato dopo che Deborah Bergamini e Agostino Saccà furono intercettati mentre, rispettivamente, concordavano palinsesti col concorrente Mediaset e piazzavano donne in Rai per volontà di Berlusconi.

Ma cosa avrà fatto la Gabanelli per vedere il suo comportamento messo sullo stesso piano di quello di una Bergamini o di un Saccà?

La puntata incriminata di Report è sotto gli occhi di tutti. Tratta in gran parte della “Carta Acquisti”, meglio nota come “Social Card”: una sorta di bancomat caricato dallo Stato per qualche decina di euro al mese e che permetterebbe agli indigenti di fare un po’ di spesa e pagare qualche bolletta.

Come di consueto, tramite i suoi inviati la Gabanelli va a fondo della questione. Evidenzia le contraddizioni e soprattutto le inefficienze del sistema su cui poggia la social card. Viene fuori che la social card è stata distribuita a poco più di 500.000 persone, e solo per una parte di esse risulta effettivamente caricata. Poi il “bonus famiglia”, inaccessibile alla gran parte di coloro che ne avrebbero bisogno. Il tutto viene dimostrato con documentazioni ufficiali e attraverso le interviste di economisti, responsabili dell’Agenzia delle Entrate e dei Caf (gli enti attraverso i quali gli aventi diritto possono richiedere la social card e il bonus famiglia).

Viene intervistato anche il ministro Giulio Tremonti, ideatore di quel sistema. Ad intervistarlo è la Gabanelli in persona. Il ministro è nervoso, a tratti palesemente in difficoltà. Messo all’angolo dalle domande della Gabanelli, diventa arrogante. Sarà lui, pare, a sollecitare ai vertici di viale Mazzini il deferimento della giornalista al Comitato Etico.

Da tempo “Report” è nel mirino dei vertici Rai, per la sua attitudine a relazionare il telespettatore al fatto. Una relazione che viene instaurata tramite lo strumento dell’inchiesta giornalistica, suddivisibile in due momenti. In un primo momento, si ricostruisce il fatto attraverso fonti ufficiali e con l’ausilio di esperti. In un secondo momento, si attua un contraddittorio tra giornalista (l’inviato) e chi è più o meno responsabile della situazione sulla quale verte l’inchiesta giornalistica. E a quest’ultimo il giornalista rappresenterà dubbi, contraddizioni, difetti rilevati nel primo momento, dandogli la possibilità di controbattere.

E’ quel tipo di giornalismo televisivo che registra il massimo grado di aderenza al dovere di verità, caposaldo del diritto di cronaca e, tra i doveri deontologici del giornalista, quello più pregnante. La citazione delle fonti ufficiali e la consultazione di esperti garantiscono la rappresentazione del fatto nella sua obiettività. Il contraddittorio che segue tra giornalista e responsabile della situazione oggetto dell’inchiesta è un po’ la prova del nove. Se si innervosisce o cade in contraddizione, significa che ha qualcosa da nascondere ai telespettatori che vedranno i risultati dell’inchiesta. Oppure, messo alle strette, finisce per ammettere quanto rappresentato dagli esperti interpellati dal giornalista.

Un tipo di giornalismo agli antipodi rispetto a quello che da ormai parecchi anni ha preso il sopravvento, che adotta la formula del talk show e che vede presenti in studio esclusivamente portatori di interesse contrapposti (quasi sempre politici di area diversa), personaggi con la funzione (in molti casi il mandato) di contraddire quanto appena detto da altri. Qui è impossibile sapere chi dice la verità, trattandosi di soggetti che possono mentire e che in molti casi ne hanno tutto l’interesse. E al giornalista conduttore è imposto il ruolo di moderatore, di mero garante della altrui libertà di espressione (che diventa spesso libertà di menzogna). E quando il giornalista conduttore, in obbedienza al dovere deontologico di verità, contraddice un ospite che sta mentendo, ecco che viene accusato di essere fazioso e minacciato di sanzioni. Stessa cosa quando un inviato in collegamento raccoglie testimonianze che smentiscono quanto sostenuto da un ospite in studio: la rappresentazione diretta del fatto scatena la reazione di chi ha interesse ad occultarlo.

E’ chiaro che di fronte ad un simile modo di concepire l’informazione, il lavoro della Gabanelli e dei suoi inviati diventa sovversivo. Non c’è spazio per il lavoro autenticamente giornalistico laddove sono i politici a voler detenere il monopolio della ricostruzione del fatto (ossia dell’informazione), sia pure in contraddittorio tra loro. Al contrario, nei programmi di approfondimento informativo il contraddittorio va attuato tra il giornalista ed il politico, dovendo il giornalista ristabilire la verità violata da chi ha interesse a mentire. Solo nei programmi di comunicazione politica il giornalista funge da moderatore, non essendo parte del contraddittorio, che è previsto solo tra i politici.

Se dal Comitato Etico verranno proposte sanzioni contro la Gabanelli, a quanto pare rea di aver soltanto ficcato il naso in affari che non devono riguardarla e osato dare vita ad un contraddittorio col ministro Tremonti, con ogni probabilità saranno motivate con l’avere la giornalista violato i principi di completezza e di imparzialità dell’informazione. Principi che la Gabanelli, in realtà, ha sempre rispettato, poiché il giornalista che si sforza di fornire al pubblico una rappresentazione obiettiva del fatto (nei modi prima visti) garantisce sempre il rispetto di quei principi.

Ma nell’ottica di chi la giudicherà, un giornalista che svela un fatto imbarazzante per il Potere costituito non può mai essere imparziale, perché diventa automaticamente “di parte”; e se, da professionista e in obbedienza al dovere deontologico di verità, relaziona direttamente il pubblico al fatto anziché lasciarlo illustrare, con comodità e senza interruzioni, da chi inevitabilmente lo rappresenterebbe in maniera quantomeno parziale, non può mai rispettare il principio di completezza, proprio perché impedisce quella (paritetica ma inevitabilmente falsa) rappresentazione del fatto. Un’ottica, come chiunque può notare, assolutamente estranea ad un ordinamento democratico, dove l’informazione la fa il giornalista, insostituibile anello di congiunzione tra fatto e collettività.