Sicurezza e ronde:
lo Stato privatizza
la tutela dell'ordine pubblico
Bologna, 4 marzo 2009
(avv. Antonello Tomanelli)
“Gli enti locali, previo parere del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, sono legittimati ad avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini non armati al fine di segnalare agli organi di polizia locale ovvero alle forze di polizia dello Stato eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale”. E’ l’art. 52 del disegno di legge sulla sicurezza, approvato in via definitiva dal Senato e ora in esame alla Camera, che istituisce le controverse ronde. Nella stesura iniziale era anche prevista la possibilità di armarle, queste ronde. Ma la disposizione è in breve tempo sparita, data la sua manifesta incompatibilità con l’art. 17 Cost., che garantisce il diritto dei cittadini “di riunirsi pacificamente e senz’armi”.
Il testo definitivo approvato dal Senato, grazie ad un emendamento presentato da Felice Casson (Pd), ha anche tolto alle ronde la funzione, inizialmente prevista, di “cooperare nello svolgimento dell’attività di presidio del territorio”. Una funzione che avrebbe formalmente attribuito a tali ronde il medesimo status di cui godevano le famigerate “Camicie Nere”: la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, istituita dal Gran Consiglio del Fascismo nel 1923, almeno prima che venisse ufficialmente assorbita nell’esercito regio.
Tuttavia, anche se formalmente private di una funzione di controllo del territorio, le “ronde” destano forti perplessità in merito alla loro legittimità costituzionale. Si parta da un dato logico incontestabile: le ronde, secondo la bruttissima formulazione della norma (segnalazione di “eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale”), dovranno necessariamente agire sul territorio. E, con ogni probabilità, travalicheranno quei limiti che il nostro ordinamento stabilisce in relazione all’intervento spontaneo del cittadino in caso di commissione di reati. Limiti indicati dall’art. 383 del codice di procedura penale, che autorizza ogni persona “a procedere all’arresto in flagranza, quando si tratta di delitti perseguibili di ufficio” nei casi in cui è previsto l’arresto obbligatorio (da parte di agenti di polizia giudiziaria e per i delitti più gravi: omicidio, rapina, etc.). In pratica, l’ordinamento dà al comune cittadino, nei casi più gravi, la possibilità di sostituirsi alla polizia giudiziaria quando questa sia impossibilitata ad intervenire tempestivamente.
Tuttavia, qui è il concetto di flagranza di reato a delimitare l’azione del cittadino. Secondo l’art. 382 del codice di procedura penale “è in stato di flagranza chi viene colto nell’atto di commettere il reato ovvero chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima”. In altre parole, lo stato di flagranza (e il conseguente potere di intervento del privato cittadino) implica l'avvenuta commissione del reato. Dunque, l’unico tipo di intervento che l’ordinamento consente al cittadino è in funzione repressiva, perché finalizzato ad assicurare il colpevole alla giustizia, quindi funzionale all’applicazione della pena.
L’intervento del privato che partecipa alla “ronda”, invece, consisterà nella presenza sul territorio, in indagini in loco, nella interazione con persone dall’atteggiamento “sospetto”. In altre parole, si tratterà di un comportamento organizzato in funzione di prevenzione dei reati, funzione che logicamente prescinde dall’accadimento di un fatto delittuoso. Un comportamento che l’ordinamento consente a difesa di determinate persone o di specifici beni privati (si pensi alle guardie del corpo private, o agli operatori della sicurezza che piantonano banche, aziende, ville, o ai “buttafuori” delle discoteche), ma mai per la salvaguardia della collettività indiscriminata o a difesa di luoghi di pubblico transito, sui quali vigila l'azione continua di organi pubblici (polizia, carabinieri, guardia di finanza, vigili urbani, etc.).
Che l’ordine pubblico non possa essere tutelato da soggetti privati è un principio che si ricava dalla Costituzione. L’art. 2 stabilisce che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Il diritto alla sicurezza è certamente un diritto inviolabile. Ma si tratta di un diritto la cui tutela non può essere delegata ad “associazioni tra cittadini”, come dispone l’art. 52 del disegno di legge sulla sicurezza, proprio perché è l’art. 2 Cost. ad affidarlo in via esclusiva alla “Repubblica”.
Poi, è l’art. 3 Cost. a rendere inconcepibile l’istituzionalizzazione del concetto di “ronda”, laddove stabilisce che “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Chi abita in zone degradate ha diritto al medesimo grado di sicurezza di cui usufruisce chi abita nei quartieri alti. Una sicurezza che, però, deve essergli garantita da organi statali (la “Repubblica”), non certo da associazioni di cittadini.
Si badi bene: art. 2 e art. 3 Cost. Stiamo parlando di quelli che nella Carta Costituzionale sono indicati quali principi fondamentali, e che secondo tutti i più autorevoli costituzionalisti non potrebbero essere modificati nemmeno con legge costituzionale.
Un’ultima osservazione, di carattere pratico. Si pensi alla funzione che queste “ronde”, i cui membri sono scelti dagli enti locali per stazionare sul territorio, finirebbero per assolvere nei comuni ad alta infiltrazione mafiosa.