Denunciato Di Pietro
per aver implorato
il rispetto della Costituzione
Bologna, 2 febbraio 2009
(avv. Antonello Tomanelli)
“Ci possiamo permettere, signor Presidente della Repubblica, di accogliere in questa piazza anche qualcuno di noi che non è d’accordo su alcuni suoi silenzi? […] Siamo dei cittadini normali che ci permettiamo di dire a lei, che dovrebbe essere l’arbitro, che a volte il suo giudizio ci pare poco da arbitro e poco da terzo.[…] Non siamo d’accordo sul fatto che si lasci passare il lodo Alfano, non siamo d’accordo sul fatto che si criminalizzino le persone che fanno il loro dovere […]. Lo possiamo dire o no? Rispettosamente, ma il rispetto è una cosa, il silenzio è un’altra: il silenzio uccide, il silenzio è un comportamento mafioso. Ecco perché non vogliamo rimanere in silenzio […]. Signor Capo dello Stato, faccia un discorso coraggioso, dica che devono andare fuori dal tempio i mercanti, dica che devono andare fuori dal Parlamento i condannati, lo dica e noi lo approveremo[…]. Non si lamenti se poi qualcuno vede nel silenzio un’accondiscendenza”.
Sono alcuni passi del discorso tenuto da Antonio Di Pietro a Roma, piazza Farnese, in occasione della manifestazione del 28 gennaio organizzata dall’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia. Parole che gli sono costate una denuncia per “Offesa all’onore e al prestigio del Presidente della Repubblica” (art. 278 cod. pen.), depositata presso la procura di Roma da Oreste Dominioni, presidente dell’Unione delle Camere Penali, per “la vistosità della portata offensiva di tali affermazioni, delegittimante l’altissima funzione istituzionale esercitata dalla suprema carica dello Stato”.
Un colpo in parte basso, quello del presidente Dominioni, soprattutto perché accusa Di Pietro di aver attribuito al presidente Napolitano “comportamenti non imparziali e omissivi assimilati a quelli di natura omertosa propri della mafia”. Dalle parole di Di Pietro emerge con evidenza la sola intenzione di valorizzare il comportamento di chi in quel momento stava attivamente partecipando ad una manifestazione di solidarietà alle vittime della mafia. Quindi, in contrapposizione a quello passivo e omertoso di chi si volta dall’altra parte, non certo all’operato del presidente Napolitano. In altre parole, è vero che Di Pietro ha accusato il Capo dello Stato, come dice la denuncia, di “comportamenti non imparziali e omissivi”. Ma che Di Pietro abbia voluto imputarli ad una caratterizzazione mafiosa della personalità di Napolitano, è una sconsiderata interpretazione che nessun tribunale si sentirebbe di avallare.
Resta da vedere se accusare il presidente della Repubblica di comportamenti “poco da arbitro e poco da terzo” e di “accondiscendenza” possa integrare gli estremi del reato per cui Di Pietro è stato denunciato. Certo, si tratta di una critica moderata. Ma qualcuno potrebbe obiettare che non è diretta a un soggetto che ricopre una qualsiasi carica pubblica. E’ diretta al garante della Costituzione, all’organo super partes per antonomasia, alla più alta carica istituzionale. All’unico organo che “rappresenta l’unità nazionale”, come dice l’art. 87 Cost. Per offendere l’onore e il prestigio del presidente della Repubblica basta molto meno di quanto occorra per diffamare un politico.
In effetti, si pensi al giornalista de “L’Unione Sarda”, condannato per aver accusato l’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro di “responsabilità morale” nella morte di Aldo Moro e di “lanciare messaggi mafiosi”, mentre nessun giudice condannerebbe chi accusò Silvio Berlusconi di strizzare l’occhio a Cosa Nostra quando diede pubblicamente dell’eroe al mafioso Vittorio Mangano alla vigilia delle elezioni politiche del 2008. Si pensi al giornalista di un periodico veneto, condannato per aver scritto della sentenza di morte chiesta e ottenuta dallo stesso Scalfaro in qualità di pubblico ministero della Corte D’Assise Speciale Antifascista di Novara per alcuni appartenenti alla Repubblica di Salò, definito dall’articolista “non un vero cattolico, ma un codino, un bigotto, di quella tradizione farisaica dei sepolcri imbiancati, quei farisei che Gesù bollò come ‘razza di vipere’”. E ancora, in tempi più recenti, a Francesco Storace, denunciato nel 2007 per aver definito Napolitano “indegno di una carica usurpata a maggioranza, senza titoli per distribuire patenti etiche per la disdicevole storia personale e per l’evidente faziosità”, dopo che il Capo dello Stato aveva bollato come “ignobile” il gesto dei giovani della “Destra” di spedire alla senatrice Rita Levi Montalcini un paio di stampelle per l’appoggio dato al governo Prodi.
Difficilmente simili critiche verrebbero ritenute diffamatorie se fossero riferite ad un politico, a maggior ragione se di primo piano. E’ chiaro, quindi, che l’area del diritto di critica si restringe notevolmente quando ad andarci di mezzo è il Capo dello Stato.
E’ la conseguenza del tradizionale principio di irresponsabilità del presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni. Una prerogativa storicamente riconosciuta ai Re, quando detenevano il potere politico ma la responsabilità dei loro atti ricadeva sempre sui ministri. Con l’avvento delle democrazie parlamentari, il Re perde il potere politico ma non la prerogativa dell’irresponsabilità. Una concezione, questa, che residua nella nostra Costituzione, dove il presidente della Repubblica ha preso il posto del Re: “Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità”, dice l'art. 89 Cost. E proprio mentre si scriveva la Costituzione, il legislatore modificava nel codice penale (che è ancora quello del 1930, ossia dell’Italia monarchica) il reato di “Lesa prerogativa della irresponsabilità del Presidente della Repubblica”, che punisce “chiunque pubblicamente fa risalire al Presidente della Repubblica il biasimo o la responsabilità degli atti di Governo” (art. 279), semplicemente sostituendo nella formulazione della norma il Capo dello Stato al Re.
Una norma, quest’ultima, che ha dormito fin dalla sua nascita, non essendo mai stata applicata da nessun tribunale. Tant’è che nel 2006 è stata formalmente abrogata con la riforma dei reati di opinione. Ma la sua formale vigenza per 60 anni fa ben intendere, in generale, quanto un ordinamento fondato sulla irresponsabilità del presidente della Repubblica sia poco incline a tollerare la critica politica nei suoi riguardi.
Tuttavia, nessun costituzionalista ha mai pensato che la funzione del presidente della Repubblica debba essere quella di limitarsi a guardare l’operato degli attori politici. Ci si riferisce, in particolare, a quei poteri che il presidente della Repubblica esercita nell’iter di formazione delle leggi. Primo fra tutti, quello previsto dall’art. 87, comma 5°, Cost.: “Il Presidente della Repubblica […] promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge”. Di fronte ad una legge (o ad un decreto legge) che appaia incostituzionale, il Capo dello Stato ha il potere di rimandarla alle Camere (o al Governo). Certo, nulla può di fronte ad una nuova deliberazione. Ma è chiaro che l’esercizio di un simile potere soddisferebbe pienamente, anche agli occhi dell’opinione pubblica, quella funzione di garanzia affidatagli dalla Costituzione. Proprio come fece il presidente Ciampi, quando si rifiutò di promulgare la legge Gasparri e la riforma dell’ordinamento giudiziario, avendovi riscontrato evidenti profili di incostituzionalità.
Ed è proprio quello che non ha fatto il presidente Napolitano, secondo la critica di Di Pietro. Sul tema della giustizia, è vero che Napolitano sta facendo ben poco per tutelare pubblici ministeri e giudici dai continui tentativi della attuale maggioranza politica di privarli del ruolo che la Costituzione loro attribuisce. Riguardo il lodo Alfano, vi è addirittura una sentenza della Corte Costituzionale (n. 24 del 2004) che aveva dichiarato incostituzionale il lodo Maccanico Schifani, di cui il lodo Alfano è una replica. E se si considera che, secondo alcuni costituzionalisti, l’inerzia di un presidente della Repubblica di fronte alla riproposizione di una legge a suo tempo dichiarata incostituzionale potrebbe addirittura integrare la fattispecie di “attentato alla Costituzione”, riesce davvero difficile scorgere nelle parole di Di Pietro un’offesa all’onore e al prestigio del presidente della Repubblica.
Al limite, le frasi di Di Pietro avrebbero potuto integrare la fattispecie di “Lesa prerogativa della irresponsabilità del Presidente della Repubblica” (art. 279 del codice penale), proprio perché attribuisce a Napolitano la responsabilità di decisioni prese in sede politica. Ma la norma, come si è detto, è stata abrogata nel 2006 con la riforma dei reati di opinione.