Santoro e Vespa,
due pesi e due misure
nel seppellire l'informazione
Bologna, 19 gennaio 2009
(avv. Antonello Tomanelli)
“Una trasmissione vergognosamente di parte”. Si possono sintetizzare così le dure critiche piovute su Michele Santoro circa la conduzione dell’ultima puntata di “Annozero”, dedicata ai fatti di Gaza. “Di parte” perché “c’è soltanto la versione palestinese”, per usare le parole di Lucia Annunziata che a metà trasmissione ha lasciato lo studio per protesta.
Come è noto, l’esercito israeliano ha lanciato una massiccia offensiva nella Striscia di Gaza. Più di mille i morti, di cui un terzo bambini. Una strage di civili denunciata persino da funzionari Onu, che in alcuni casi si sono visti bombardare i propri edifici. La strage degli innocenti: era su questo che la puntata di “Annozero”, significativamente intitolata “La guerra dei bambini”, si proponeva di fare luce.
Santoro ha voluto approfondire un “fatto”: le vittime civili dell’offensiva israeliana. Ha quindi confezionato servizi provenienti da Gaza, con immagini che parlavano chiaro. Ha intervistato testimoni in loco. Sono stati denunciati rastrellamenti di civili palestinesi in edifici poi bombardati. Ne è venuta fuori un’immagine di Israele certamente poco edificante. Immagine che ha costretto l’ambasciatore israeliano a parlare di “spettacolo vergognoso che speriamo non si ripeta più”, il presidente della Camera Gianfranco Fini di “superamento del livello di decenza”, Fabrizio Cicchitto di “informazione prodotta al di fuori dei più elementari principi deontologici del giornalismo”, tanto per citarne alcuni.
Eppure, diciamo la verità, Santoro ha raccontato un “fatto”. Ma allora perché queste critiche? Soprattutto, da quando la descrizione di un “fatto” deve generare accuse di faziosità e di partigianeria nei riguardi di chi lo rappresenta?
Risposta: da quando il concetto di par condicio ha inquinato l’informazione. Il concetto di par condicio nasce nei primi anni ’90 per regolamentare la comunicazione politica. In ossequio al principio del pluralismo, alle forze politiche devono essere garantiti i medesimi spazi televisivi, in modo da poter comunicare in egual modo con i potenziali elettori. Più parti contrapposte, con diversi modi di concepire la gestione del paese, in competizione tra loro per accaparrarsi il voto degli elettori. Caratteristica della comunicazione politica è l’esprimersi attraverso meri “punti di vista”.
Un fenomeno, quello della comunicazione politica, evidentemente opposto al concetto di informazione, che è generata dal giornalista ed ha ad oggetto non punti di vista bensì “fatti”, rappresentati nella loro unicità. E il dovere deontologico di verità cui è vincolato il giornalista lo caratterizza rispetto al politico, che invece è libero di mentire.
Ebbene, da ormai diversi anni si pretende l’applicazione del concetto di par condicio anche all’informazione. In sostanza al giornalista conduttore viene impedita l’autonoma rappresentazione del “fatto”. Ciò che arriva al telespettatore, invece, sono le diverse interpretazioni che del fatto forniscono le parti (quasi sempre politici) che non solo possono, ma in molti casi hanno tutto l’interesse a mentire. Si dice sempre che bisogna garantire il “contraddittorio”. Ma l’applicazione del principio del contraddittorio all’informazione fa sì che una notizia nasca per essere smentita. Così, il programma di approfondimento informativo si trasforma in programma di comunicazione politica, dove il giornalista svolge il ruolo del moderatore, mero garante del pluralismo politico e favoreggiatore di interpretazioni contrapposte. Bravissimo in questo tipo di conduzione è Giovanni Floris con il suo “Ballarò”. Ma a rimetterci è il telespettatore, che non saprà mai chi dice la verità.
Essendo tale tipo di conduzione il sogno di ogni forza politica, non deve meravigliare se Santoro viene attaccato quando fa vedere le immagini delle stragi di civili nella Striscia di Gaza. Nell’affrontare una questione delicatissima, Santoro si è permesso di relazionare direttamente il telespettatore al “fatto”, rifiutandosi di darne una rappresentazione mediata dalle opposte visioni che di esso, in omaggio alla par condicio, fornirebbero soggetti portatori di interessi contrapposti (ma soprattutto liberi di mentire) allontanando il telespettatore dalla verità. Così, l'Annunziata lo ha rimproverato di aver fornito dei fatti di Gaza "soltanto la versione palestinese" (dimenticandosi la giornalista che quelle immagini e quelle testimonianze non possono certo considerarsi "versione"), non consentendo così ad altri di smentire che quanto raccontato corrispondeva a verità. Da buon giornalista, ha preferito privilegiare la “narrazione” alla “conversazione”, come osserva il giornalista Gennaro Carotenuto nel suo articolo.
Ma le accuse a Santoro lasciano interdetti soprattutto se si considera la puntata di “Porta a Porta” del 12 gennaio, andata in onda solo tre giorni prima e dedicata ai 90 anni di Giulio Andreotti. Una puntata che Bruno Vespa ha condotto (questa sì) “al di fuori dei più elementari principi deontologici del giornalismo”, come invece si è espresso Fabrizio Cicchitto a proposito di “Annozero”. Ci si riferisce, in particolare, a quella parte della puntata che ha affrontato le vicende processuali di Andreotti.
Proponendosi quella parte della puntata di approfondire la questione relativa al processo subìto da Andreotti per concorso esterno in associazione mafiosa (il “fatto”), logica giornalistica avrebbe voluto che quell’approfondimento venisse condotto con l’ausilio di soggetti non solo in rapporto diretto con quel fatto, ma anche (e soprattutto) attendibili. Ebbene, in studio, a parlare di quel processo (oltre a Pisanu, Cossiga e Macaluso, per ovvi motivi lontani dal “fatto”) vi erano lo stesso Andreotti e l’on. Giulia Bongiorno, l’avvocato che lo difese. Soggetti che hanno avuto sì un rapporto diretto con il “fatto”, ma che hanno tutto l’interesse a mentire.
Infatti, è accaduto quello che ogni persona di buon senso si sarebbe aspettato: una clamorosa distorsione dei fatti, unicamente tesa a fugare ogni dubbio sull’onestà del senatore a vita. Ci si riferisce, in particolare, all’affermazione dell’avvocato Bongiorno sulla questione della tanto discussa prescrizione del reato di partecipazione all’associazione mafiosa fino alla primavera del 1980, quando Andreotti litigò furiosamente con il boss mafioso Stefano Bontate a seguito dell’uccisione, il 6 gennaio, di Piersanti Mattarella, democristiano e presidente della Regione Sicilia. Una lite che, secondo i giudici d’appello, avrebbe segnato la rottura dei rapporti tra Andreotti e la mafia. Vale la pena riportare integralmente l’intervento della Bongiorno:
“Mentre la sentenza della Corte d’Appello diceva che prima dell’80 ci sono dei fatti di suoi rapporti con la mafia e dopo no, quella della Cassazione, che è il terzo grado e che nessuno vuole andare a vedere, dice che nella parte anteriore al 1980 ci sono due verità alternative: la possibilità che lui avesse rapporti con la mafia o non li avesse. C’è una situazione di dubbio, per la quale però non ha senso tornare indietro e vedere quale delle due verità alternative perché è arrivata la prescrizione. Quindi è una cosa dubitativa, ben diversa dalla sentenza d’appello”.
Niente di più falso. Non è vero che la Corte d’Appello di Palermo ha accertato che Andreotti non ebbe più rapporti con la mafia dopo la primavera del 1980, ossia dopo la lite con Stefano Bontate. Al contrario, ha accertato che ebbe diversi contatti con esponenti mafiosi, ma li ha ritenuti insufficienti a fondare una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, assolvendo l’imputato ex art. 530, comma 2°, del codice di procedura penale (insufficienza di prove), dopo aver presupposto che l’attività di “concorso esterno” era cessata a seguito della lite con Stefano Bontate (e prescritto il relativo reato) e non si era più ricostituita.
Ma la bugia della Bongiorno diventa clamorosa sulla sentenza della Corte di Cassazione. Innanzitutto, la Cassazione ha ritenuto incensurabile la sentenza della Corte d’Appello laddove individua il reato (prescritto) di concorso esterno in associazione mafiosa fino al 1980. Altro che le “due verità alternative” e la “cosa dubitativa” di cui parla la Bongiorno!
Ma vi è di più. Come già detto, per la Corte d’Appello la lite con Stefano Bontate è il segno della rottura dei rapporti tra la mafia e Andreotti. Dopo quella rottura Andreotti continua ad avere contatti con mafiosi, ma non così intensi da ritenere provato il concorso esterno nell’associazione mafiosa (meglio, non così intensi da provare la ricostituzione del rapporto con Cosa Nostra ritenuto cessato dopo quella lite).
Ebbene, la Corte di Cassazione ha precisato che tale ragionamento si pone in contrasto con un orientamento giurisprudenziale consolidato, che ritiene configurabile la rottura del vincolo associativo “soltanto a seguito di recesso volontario o di esclusione del partecipe che devono essere accertati caso per caso in virtù di una condotta esplicita, coerente e univoca e non in base a elementi indiziari di valenza incerta”. A detta della Cassazione, i giudici d’appello hanno errato nel ritenere il recesso di Andreotti dal vincolo mafioso provato dalla lite con Stefano Bontate. Ma non potendo la Corte di Cassazione, che è giudice di legittimità, interpretare i fatti, ossia entrare nel merito, ha dovuto confermare la sentenza d’appello.
Le cose, quindi, stanno in maniera molto diversa da quanto affermato dalla Bongiorno, che sostanzialmente presenta la sentenza della Corte di Cassazione quale “migliorativa” della posizione di Andreotti, quando in realtà è “peggiorativa”. Ma non poteva andare diversamente, con soggetti la cui posizione è, per ovvi motivi, antitetica rispetto a quell’obiettività che dovrebbe sempre caratterizzare l’informazione. Qui la violazione, da parte di Bruno Vespa, del dovere deontologico di verità, il caposaldo del diritto di cronaca e il più pregnante tra i doveri del giornalista, appare evidente, avendo fatto sì che la distorsione dei fatti divenisse altamente probabile invitando addirittura l'avvocato di Andreotti, senza nemmeno nessuno che potesse smentire quanto da lei affermato. Eppure, nessuna critica è stata mossa a quella puntata di “Porta a Porta”.