Fatti processare, buffone!
Il 5 maggio 2003 Silvio Berlusconi, allora capo del Governo, rende dichiarazioni spontanee davanti al Tribunale di Milano che lo sta processando per i reati di falso in bilancio e corruzione nell’ambito del processo Sme. Esprime forti critiche nei confronti della magistratura, accusandola di demolire la sua immagine di uomo di Stato. Si dichiara pienamente disponibile a rispondere alle domande dei giudici il 25 giugno, ma sapendo che a quella data sarà già in vigore la L. n. 140/2003, nota come “lodo Maccanico Schifani”, il cui art. 1 sospende i procedimenti penali contro le massime cariche dello Stato (articolo poi dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 24/2004).
All’uscita dell’aula, il giornalista free lance Piero Ricca urla all’indirizzo di Berlusconi le seguenti frasi: “Fatti processare, buffone! Rispetta la legge! Rispetta la Costituzione! Rispetta la democrazia! O farai la fine di Ceausescu e di Don Rodrigo!”. Ciò provoca la reazione furiosa di Berlusconi, che ordina ad un ufficiale di polizia di prendere nota delle generalità del contestatore.
Silvio Berlusconi querela Ricca per ingiuria. Il Giudice di Pace di Milano riconosce la sussistenza del reato e condanna il Ricca alla pena di Euro 500 di multa. Il Ricca ricorre in Cassazione.
La Corte di Cassazione annulla la sentenza di condanna del Giudice di Pace, riconoscendo al Ricca il diritto di critica politica. Secondo la Suprema Corte, potendo la critica “esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, quanto più elevata è la posizione pubblica della persona che ne è destinataria”, le espressioni adoperate dal Ricca non possono essere considerate offensive, ma “di forte critica, speculare per intensità al livello di dissenso nell’ambito politico e nell’opinione pubblica per la delicatezza dei problemi posti ed affrontati dalla persona offesa”, critica occasionata dal “vulnus che il Ricca riteneva inferto a valori primari dello stato di diritto, come quello dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e ai giudici che la applicano”.
Nella critica l’uso di epiteti è sempre stato considerato illegittimo, perché funzionale al mero insulto e inconciliabile con il concetto di “argomentazione”. La sentenza in commento sembrerebbe mettere in crisi, almeno in parte, questa tradizionale impostazione.
Il Giudice di Pace di Milano aveva condannato il Ricca sulla base dell’espressione “buffone” rivolta all’indirizzo di Berlusconi. In effetti, non si può negare che questo termine costituisca un insulto. Ma, secondo la Suprema Corte, va considerato il contesto nel quale l’insulto stesso si inserisce.
E il contesto è indubbiamente di critica (politica), se si considera sia l’elevatissima posizione dell’homo publicus Berlusconi (ricorda la Suprema Corte: “La critica può esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, quanto più elevata è la posizione pubblica della persona che ne è destinataria”), sia la rilevanza delle questioni cui la sua figura ha dato vita.
Ed è soprattutto su quest’ultimo aspetto che la Suprema Corte pone l’accento, quando parla di “vulnus che il Ricca riteneva inferto a valori primari dello stato di diritto, come quello dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e ai giudici che la applicano”. Va tenuto presente, infatti, l’atteggiamento di Berlusconi nei riguardi dei magistrati chiamati a giudicarlo per i reati di cui era imputato. All’udienza di quel giorno, quindi pochi minuti prima della contestazione del Ricca, Berlusconi, nel tentativo di giustificare il suo comportamento, aveva pronunciato la famosa frase “la giustizia è uguale per tutti i cittadini, ma questo cittadino forse è un po’ più uguale degli altri”. A voler dire, con ogni probabilità, che l’importanza della carica da lui ricoperta doveva prevalere su qualsiasi tentativo di processarlo, a prescindere dalla verità emersa.
I continui attacchi di Berlusconi ai giudici, più volte accusati di essere “comunisti” che tramano per distruggerlo politicamente, senza dubbio ne hanno svelato non solo lo scarso attaccamento alle istituzioni, ma anche una certa dose di esibizionismo. Ed è proprio in relazione a questo atteggiamento che il Ricca adopera l’epiteto di “buffone” nei riguardi di Berlusconi, accompagnato dall’invito a farsi processare nel rispetto delle leggi. Il Ricca vuole sottolineare soprattutto la spavalderia con cui il capo del Governo strumentalizza la propria carica per sottrarsi a ciò che la Costituzione riferisce a chiunque “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3 Cost.: principio di uguaglianza). Ecco il “vulnus” ai valori primari dello stato di diritto denunciato dal Ricca e di cui parla in sentenza la stessa Corte di Cassazione.
L’errore in cui è incorso il Giudice di Pace di Milano è l’aver sganciato il termine “buffone” dal contesto espressivo della critica del Ricca. In ogni democrazia, chi si ostina ad ostacolare l’accertamento della verità vantandosi di essere stato scelto dall’elettorato per governare il Paese è un buffone. In ciò si sostanzia la critica del Ricca. Qui il termine “buffone” è logicamente collegato alle argomentazioni contenute nell’invito, rivolto a Berlusconi, a farsi processare come un qualsiasi cittadino, tanto da risultare quel termine assorbito nelle argomentazioni stesse. Assorbimento che, per intenderci, non potrebbe sostenersi se il Ricca avesse dato a Berlusconi del “bastardo” o del “figlio di puttana”.
E nel diritto di critica (politica) rientrano anche i riferimenti ai personaggi di Don Rodrigo e dell’ex dittatore rumeno Ceausescu. E’ fuori di dubbio che trattasi di personaggi che hanno ben poco a che vedere con Silvio Berlusconi. Ma è anche vero che il loro sciagurato operato, così come tramandatoci dagli scritti manzoniani e dalla Storia, incarna alla perfezione quel vulnus ai valori primari dello stato di diritto denunciato pubblicamente dal Ricca nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano.