Un Don Abbondio tra i magistrati
Il 14 agosto 1991 viene pubblicato su “Il Corriere della Sera” un articolo a firma S.U. dal titolo “La mafia vince se in Corte d’Assise c’è Don Abbondio”. L’articolo si riferisce ad un’intervista resa dal dott. T.A., giudice del Tribunale di P., ad un gruppo di giornalisti all’indomani dell’assassinio del giudice Scopelliti.
L’articolista non usa mezze misure nei riguardi del magistrato. In pratica, lo accusa di vigliaccheria di fronte alla mafia. Nel sottolineare l’assenza nel magistrato delle doti necessarie per combattere la criminalità mafiosa, l’articolista parla di “una commedia giudiziaria che sembra elaborata da uno scrittore diabolico capace di far rivivere contesti e personaggi propri di Kafka, Pirandello e Manzoni, con un protagonista che assomiglia a Don Abbondio, perché il presidente della Corte d’Assise, se qualcuno gli chiede che fine ha fatto quel processo, protesta, accusa, redarguisce ma, al momento giusto, si tira indietro”.
Il dott. T.A. querela l’articolista per diffamazione. Il Tribunale di Milano accerta la responsabilità dell’articolista, affermando che “Travalica i limiti della continenza formale l’attribuzione, in un articolo giornalistico, della patente di avidità alla persona di un magistrato impegnato in processi di lotta alla mafia, tramite l’accostamento alla figura manzoniana di Don Abbondio, avendo un significato offensivo, lesivo della considerazione che un giudice deve avere nell’ambiente professionale e nel corpo sociale”.
Il Tribunale ha ravvisato la lesione alla reputazione del magistrato attraverso l’accostamento della sua figura a quella di Don Abbondio, figura manzoniana che incarna chi vigliaccamente viene meno ai propri doveri per assecondare i voleri del potente di turno.
L’articolista sottolineava il fatto che il magistrato aveva preferito astenersi dal presiedere un processo contro elementi di spicco della mafia locale, per motivi che comunque erano stati ritenuti validi dal presidente della Corte d’Appello. Motivi relativi all’arretrato di processi a carico di detenuti che il magistrato si era trovato a dover smaltire.
Così il magistrato aveva ottenuto l’affidamento ad altre mansioni. E fin qui non ci sarebbe nulla di male nello scriverlo, poiché si trattava pur sempre di una circostanza rispondente a verità.
Ma l’articolista lo ha espressamente considerato un pretesto, proprio come quelli che ne “I Promessi Sposi” il richiamato Don Abbondio prendeva con Renzo per rimandare ogni volta la celebrazione del matrimonio con Lucia. Per un magistrato destinato alla lotta contro la mafia, essere paragonato a Don abbondio rappresenta forse la peggiore offesa che gli si possa rivolgere: venire additati alla collettività come una persona che fugge ai propri doveri di lotta alla mafia, quando al contrario quella lotta richiede soggetti disposti a rischiare fino all’estremo sacrificio.
Alcune considerazioni vanno fatte sulla scelta del requisito che il Tribunale ha ritenuto violato nel caso in questione: la continenza formale.
A ben vedere, il ricorso dell’articolista alla figura di Don Abbondio è soltanto strumentale alla rappresentazione di una situazione che ufficialmente non corrisponde a verità. Il magistrato ha chiesto e ottenuto di non presiedere il processo contro i boss mafiosi locali perché oberato di processi a carico di altri detenuti. Un pretesto, secondo l’articolista, in quanto il vero motivo era la paura del magistrato di dover giudicare (ed eventualmente condannare) quei boss locali. Il richiamo della figura di Don Abbondio non è altro che un modo per sottolineare efficacemente la debolezza e l’inidoneità del magistrato a ricoprire il proprio ruolo, dimostrate nel caso in questione – secondo l’articolista – proprio con l’essersi astenuto dal processo per paura.
E’ il requisito della verità, quindi, non quello della continenza formale ad essere stato violato. E’ proprio l’aver scritto, senza fornire alcuna prova, che il magistrato aveva rinunciato a quel processo per paura (e non per motivi di funzione) a negare legittimità all’articolo in questione secondo i principi generali del diritto di critica.
Pare significativa la scelta del Tribunale di Milano di ritenere superati i limiti del diritto di critica per violazione del requisito della continenza formale, anziché di quello della verità. Basare in questo caso la sentenza di condanna sulla violazione del requisito della continenza formale significa che se i fatti affermati con la critica fossero stati veri, all’articolista non avrebbe potuto ugualmente riconoscersi il diritto di critica.
In altre parole, sembra che il Tribunale di Milano non si sia posto più di tanto il problema della verità dei fatti. E’ il modo di rappresentare un magistrato, ossia l’accostamento ad una figura eloquentemente negativa come quella di Don Abbondio, a dover essere colpevolizzata. Poco importa se, per ipotesi, l’accusa di pavidità ai danni del magistrato si fosse dimostrata fondata. Qui emerge con evidenza la preoccupazione di tutelare il più possibile quella serenità di giudizio che deve sempre accompagnare ogni magistrato nell’espletamento delle sue delicate funzioni.