Il falso comunicato Ansa
Il 10 giugno 1992 viene pubblicato sul quotidiano “La Stampa” un articolo che riferisce di alcuni clamorosi sviluppi delle indagini sulla strage di Capaci del 23 maggio. Si parla della casuale intercettazione di una telefonata, ascoltata qualche giorno prima dell’attentato e denunciata da una signora di Catania, in cui due individui con accento siciliano parlano di un agguato in preparazione “al secondo ponte dell’autostrada”. L’articolo prosegue riportando le affermazioni del dott. R.S., magistrato presso la procura di Palermo, il quale parla di “gravissima negligenza” e di “strage che poteva essere evitata”, riferendosi espressamente al Questore di Catania, e auspicandone “l’immediata rimozione”.
Il dott. R.S. smentisce quelle dichiarazioni. B.C., Questore di Catania, cita dinanzi al Tribunale di Torino articolista, direttore responsabile ed editore de “La Stampa”, i quali si difendono sostenendo e provando che l’articolo contenente le gravi accuse rivolte al Questore di Catania dal dott. R.S. aveva ripreso un lancio Ansa del 9 giugno. Data l’indiscussa autorevolezza della fonte informativa, avevano in buona fede creduto che la notizia fosse vera.
Il Tribunale di Torino non riconosce la verità putativa e condanna i convenuti al risarcimento dei danni, motivando che “non è possibile allegare a riscontro dell’esercizio putativo del diritto di cronaca l’operato erroneo di altri organi di informazione […] dal momento che ogni organo di informazione deve verificare la fondatezza della notizia”.
La sentenza si sofferma sul valore da attribuire alle fonti non ufficiali ma dotate di indubbia autorevolezza. La questione ha riguardato giornalisti che pubblicavano una notizia appresa dalla Rai, poi rivelatasi falsa. In questi casi i giudici non hanno mai riconosciuto la verità putativa (quindi il diritto di cronaca) perché giustamente si sono sempre rifiutati di attribuire alla televisione di Stato natura di fonte informativa privilegiata (sulla questione si veda La falsa notizia Rai).
Nel caso in questione, invece, la notizia diffusa era stata appresa dall’Ansa. I giudici hanno negato al giornalista la verità putativa, sul presupposto che nemmeno l’Ansa va considerata fonte informativa privilegiata. Dunque un trattamento identico a quello riservato al giornalista che aveva ripreso una notizia diffusa dalla Rai. Ma c’è da chiedersi se la fattispecie in questione non offrisse spazi per una soluzione più equa, in considerazione della diversa funzione che caratterizza l’Ansa rispetto alla Rai.
Nata nel 1945, l’Ansa (acronimo di “Agenzia Nazionale Stampa Associata”) è un’agenzia di stampa strutturata in forma di cooperativa, i cui soci “esercitano imprese editrici di giornali quotidiani e/o periodici” (art. 7 dello Statuto). La sua attività consiste nella “raccolta, pubblicazione e distribuzione ai Soci, alla pubblica amministrazione e ai terzi di ogni informazione giornalistica e di ogni altro servizio connesso con la comunicazione in tutte le sue forme […] con criteri di rigorosa indipendenza, imparzialità, obiettività” (art. 2). Attualmente conta come soci 37 editori della carta stampata (tra i quali R.C.S. Quotidiani e Gruppo Editoriale L’Espresso) ed ha uffici di corrispondenza in 80 diversi paesi.
Insomma, l’attività dell’Ansa è principalmente quella di produrre notizie, messe a disposizione degli operatori dell’informazione attraverso i suoi “lanci”. E la funzione espletata dall’Ansa, insieme alla sua particolare struttura, porta ad una constatazione. Il rapporto tra Ansa e collettività non è diretto, ma prevalentemente mediato dagli organi di informazione. Inoltre, sono questi stessi organi, in forma associata, a gestire l’Ansa. Ciò garantisce un’attività di raccolta delle informazioni improntata a competenza e professionalità, con la conseguenza che ciascuna entità editoriale, presa singolarmente, è portata ad attribuire la massima attendibilità alle notizie diffuse dall’Ansa.
Ma riconoscere la verità putativa al giornalista di un organo di informazione che diffondesse una notizia falsa ripresa dall’Ansa condurrebbe ad una conseguenza paradossale, a causa della altamente probabile identificazione tra socio Ansa e organo di informazione che pubblica la notizia. Il giudice, cioè, dovrebbe negare la responsabilità dell’organo di informazione come singolo editore per la diffusione di una notizia che tuttavia ha contribuito a produrre come socio Ansa.
Alla conseguenza paradossale si aggiungerebbe un effetto iniquo nei casi in cui fosse chiamata in giudizio anche l’Ansa. Se venisse riconosciuta al giornalista del mezzo di informazione la verità putativa (quindi affermata la responsabilità esclusiva dell’Ansa), il danno prodotto dall’organo di informazione si scaricherebbe indirettamente ma interamente sugli stessi soci Ansa (anziché per metà, come quando viene dichiarata la responsabilità dell’organo di informazione in concorso con quella dell’Ansa). Conseguenza inaccettabile, almeno in assenza di una clausola dello Statuto che imputi in via esclusiva all’Ansa la responsabilità per i danni causati da una pubblicazione originata da un erroneo “lancio”. Una conseguenza, quindi, che potrebbe derivare soltanto da una espressa disciplina privatistica dei rapporti tra l’Ansa e i propri soci, non certo dai principi generali del diritto di cronaca.
Per il resto, valgono gli stessi argomenti adoperati per escludere la verità putativa in favore del giornalista che abbia ripreso una notizia dalla Rai. Anche qui, un eventuale riconoscimento della verità putativa porterebbe all’equiparazione dell’Ansa ad una fonte ufficiale. Conclusione improponibile, sia per la composizione dell’Ansa (editori indipendenti), sia per l’impossibilità in un sistema democratico di accettare l’assimilazione di un organo di informazione all’apparato statale.