L'architetto lenone
In data 4 maggio 1994 sul quotidiano “La Nazione”, cronaca locale di Arezzo, viene riportata la notizia di una brillante operazione di polizia denominata “Stelle dell’Est”, che ha stroncato un giro di prostituzione di ragazze russe e portato in carcere un discreto numero di “insospettabili”.
Sotto il titolo “Sesso e caviale. Arrestata gang di insospettabili”, l’articolo cita nome e cognome di tutti i soggetti coinvolti, specificando che dodici persone sono state rinviate a giudizio per il reato di associazione per delinquere finalizzato allo sfruttamento della prostituzione. Tra queste, l’architetto A.C., al quale il giornalista non lesina sarcasmo, descrivendolo come uno che “invece di progettare case progettava sistemazioni provvisorie”.
In realtà le cose non stanno proprio così. Vi è stata la richiesta di rinvio a giudizio da parte del pubblico ministero (pm), non il rinvio a giudizio del giudice per le indagini preliminari (gip) (tant’è che all’esito dell’udienza preliminare l’architetto verrà addirittura prosciolto). Inoltre, il pm non ha contestato all’architetto il grave reato associativo, ma solo il reato di cui all’art. 3, comma 8°, L. n. 39/1990 ("legge Martelli”), che punisce chi compie in violazione della legge “attività dirette a favorire l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato”.
L’arch. A.C. cita in giudizio editore e direttore responsabile dinanzi al Tribunale di Arezzo. Questi afferma che “la pubblicazione della notizia relativa ad un rinvio a giudizio non ancora formulato, trattandosi di notizia non vera, è sicuramente lesiva dell’onorabilità della parte offesa”; e che “integra il reato di diffamazione l’addebitare a taluno reati più gravi di quelli ipotizzati dalla pubblica accusa”. E condanna i convenuti al risarcimento dei danni subìti dall’architetto per effetto dell’articolo diffamatorio.
La sentenza è da condividere in ogni suo punto. E’ evidente che associarsi per avviare alla prostituzione e sfruttare ragazze venute dalla Russia, è cosa ben diversa dall’aiutarle ad entrare clandestinamente in Italia. Una grave confusione del giornalista, che ha additato l’architetto all’opinione pubblica aretina come un individuo spregevole, se si considera la natura del reato di sfruttamento della prostituzione. Qui la lesione della reputazione è pacifica.
E’ interessante la questione del momento processuale al quale la vicenda dell’architetto è stata ricondotta dal giornalista. Il provvedimento di richiesta di rinvio a giudizio non può in alcun modo assimilarsi al provvedimento di rinvio a giudizio. La richiesta di rinvio a giudizio è la valutazione espressa dal pm (l’organo che rappresenta la pubblica accusa) nei riguardi dell’indagato in base esclusivamente agli elementi raccolti dal pm stesso. E’ l’atto finale delle indagini preliminari, con cui in pratica il pm fa sapere al gip che “secondo lui” il soggetto su cui ha indagato deve essere sottoposto a processo.
Il gip, valutati gli elementi raccolti dal pm e nel contraddittorio tra pm e indagato (che nel frattempo è diventato “imputato”) decide al termine dell’udienza preliminare appositamente tenuta se l’imputato deve andare in dibattimento ed essere giudicato. In questo caso emette il decreto di rinvio a giudizio. Pronuncia, invece, il non luogo a procedere nel caso in cui non condivida l’ipotesi accusatoria del pm.
Dal punto di vista dello sviluppo del processo, può dirsi che il pm è subordinato al gip, poiché è solo quest’ultimo a decidere se il lavoro del pm è valido al punto da meritare l’attenzione del giudice del dibattimento. Senza il “via libera” del gip, il lavoro svolto dal pm nemmeno arriva sul tavolo del giudice del dibattimento.
Detto ciò, risulta palese la differenza qualitativa tra l’aver commesso un reato nella credenza di un pm e l’averlo commesso nella convinzione di un gip. E si intuisce la diversità di impatto emotivo che sul lettore provoca la notizia di un rinvio a giudizio rispetto a quello che deriva dalla lettura di una semplice ipotesi accusatoria.