Il killer del Messaggero
Il 14 gennaio 1990 il quotidiano “Il Messaggero” promuove un gioco a premi basato sulla riproposizione più o meno casuale delle vecchie prime pagine dello stesso quotidiano. Quel giorno a pag. 9 appare la fotografia della prima pagina dell’edizione del 6 dicembre 1961. La pagina è riprodotta in maniera ridotta, ma è ben visibile un titolo che si riferisce a un grave fatto di cronaca dell’epoca: “S.S. ha confessato di avere ucciso B.C.”, con la foto dell’autore dell’omicidio.
S.S. era stato condannato nel 1964 a trent’anni per omicidio. Ma la buona condotta tenuta durante l’esecuzione della pena aveva indotto nel 1981 il Capo dello Stato a concedergli la grazia. S.S. era quindi uscito di prigione e viveva in regime di libertà vigilata. Lavorava regolarmente vivendo con la famiglia. Insomma, un individuo socialmente reinserito.
S.S. ritiene la pubblicazione gravemente diffamatoria e cita in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma editore e direttore responsabile, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni. Il Tribunale accoglie la domanda, affermando che “Non costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca, per mancanza dell’utilità sociale della notizia, la riproduzione, nel contesto di un gioco a premi, della prima pagina di un’edizione d’epoca del quotidiano […] in cui sia evidente un titolo contenente il nome di un individuo reo confesso di omicidio”.
Il Tribunale ha riconosciuto la diffamazione per mancanza del requisito dell’interesse pubblico. Tra l’altro, l’atteggiamento del quotidiano risulta particolarmente odioso, se si considera che la lesione è avvenuta nell’ambito di un gioco promozionale a premi, quindi ideato al solo scopo di incrementare le vendite del quotidiano.
Un evento che sia stato oggetto di cronaca trent’anni prima non può essere riproposto, a meno che non sorga un interesse pubblico alla sua rievocazione. E’ questo il ragionamento seguito dal Tribunale, che non nomina propriamente il diritto all’oblìo, ma evidentemente è ad esso che fa riferimento.
S.S. esce di prigione dopo vent’anni, a seguito della grazia concessagli dal Presidente della Repubblica. Nel 1990 risulta reintegrato nella società. Riconoscergli un diritto all’oblìo non significa soltanto aiutarlo a dimenticare un brutto passato. Significa eliminare qualsiasi ostacolo ad un pieno reinserimento nella società e negli affetti, senza che le ombre del passato possano in qualche modo turbare una tranquillità faticosamente cercata in vent’anni di espiazione e buona condotta carceraria.
In generale il diritto all’oblìo si pone come estensione del diritto alla riservatezza. Una volta affievolitosi l’interesse pubblico alla conoscenza di un evento, l’evento stesso diventa fatto privato, la cui divulgazione lede la reputazione del soggetto cui l’evento si riferisce.
Ma in casi simili a quello in questione, dove un soggetto intraprende la difficile strada del reinserimento sociale dopo l’espiazione di una lunga condanna, il diritto all’oblìo trova legittimazione anche nell’art. 27, comma 3°, Cost., che sancisce il principio della funzione rieducativa della pena. A favore di chi si è macchiato di un crimine ed ha pagato quanto dovuto, deve essere impedito che il fatto passato possa in qualsiasi modo nuocergli. E non c’è dubbio che la pubblicazione, a distanza di trent’anni, di un articolo che in sostanza riconsegna al pubblico la parte passata peggiore di chi al contrario si è rifatto una vita pagando con vent’anni di carcere, vanifica qualsiasi finalità rieducativa.