Il 'caso Sutter'
Il 29 novembre 1996 è prevista su Raiuno la programmazione de “Il caso Bozano” per il ciclo “I grandi processi”. Il programma tratta della tragica vicenda di Milena Sutter, tredicenne genovese, figlia di un noto industriale, sequestrata e barbaramente uccisa nel 1971.
I familiari di Milena vengono subito a conoscenza della imminente programmazione. Invocano sensibilità per un una ferita ancora aperta e chiedono alla Rai di bloccare la messa in onda del programma. La Rai si rifiuta.
I genitori e i fratelli di Milena ricorrono con procedimento d’urgenza al Tribunale di Roma, invocando il diritto alla riservatezza che la messa in onda pregiudicherebbe. Lamentano che il programma riporterebbe “all’impietosa curiosità dei telespettatori il nome, l’immagine e i sentimenti della vittima e dei suoi familiari a fini di spettacolo e senza alcuna giustificazione sul piano dell’informazione”. Chiedono al Tribunale l’emanazione di un provvedimento d’urgenza che inibisca la programmazione de “Il caso Bozano”.
Il Tribunale di Roma rigetta il ricorso, affermando che “L’interesse del singolo a veder tutelata la propria vita privata e ad impedire il perpetuarsi del ricordo di avvenimenti dolorosi che lo hanno visto protagonista è destinato a soccombere se siffatti avvenimenti possano considerarsi come facenti parte del contesto sociale nel quale si sono verificati e su di essi non si sia mai sopito l’interesse della collettività, di modo che, potendo essere considerati un fatto di cronaca idoneo a suscitare riflessioni, commenti e giudizi, possa la loro divulgazione ritenersi giustificata da un interesse sociale”.
Il diritto all’oblìo presuppone l’affievolimento dell’interesse pubblico per un evento passato. Una volta svanito questo interesse, la lesione dei diritti che deriva dalla sua rievocazione non è mai giustificata. Vi sono casi, però, per i quali l’interesse pubblico alla loro riproposizione non viene mai meno. Per il Tribunale di Roma, il “caso Sutter” è proprio uno di questi.
La decisione è in massima parte condivisibile. Ma non per i motivi esposti in sentenza. E’ certo che il caso Sutter suscitò vivaci dibattiti, sia per la giovane età della vittima, sia per la personalità manifestata dall’assassino prima e dopo il delitto, sia per la reazione di quell’opinione pubblica propensa ad un forte inasprimento delle pene in presenza di efferati delitti. Scontata l’eccezionale gravità del fatto in sé e l’enorme impatto sociale provocato, si tratta di vedere se il riproporlo dopo un quarto di secolo possa obiettivamente soddisfare una utilità sociale.
Un reale ed obiettivo interesse pubblico alla riproposizione di eventi passati è riscontrabile per quei fatti che ancora rechino in sé elementi di mistero; o perché non sono stati ancora individuati i responsabili, o perché sono sconosciute le cause del gesto, o perché nella vicenda rimangono ancora punti oscuri. Tant’è che la locuzione “misteri italiani” è diventata un luogo comune proprio per indicare un qualcosa che si sospetta non verrà mai del tutto chiarita.
Ciò in quanto la riproposizione di casi irrisolti o comunque misteriosi presenta una duplice utilità sociale. In primo luogo, la collettività viene aggiornata sullo stato delle indagini. In secondo luogo, si rende operante un principio di natura squisitamente democratica: si permette la partecipazione ideale della collettività alla soluzione del caso, stimolando un dibattito che per forza di cose resta aperto.
Sotto questo aspetto, la rievocazione del caso Sutter presenta un’utilità certamente minore se confrontato con casi come quello di Emanuela Orlandi, o del delitto di via Poma, o di quello dell’Olgiata, o del delitto Pasolini, o di altri che ancora oggi rimangono avvolti nel mistero o, nella migliore delle ipotesi, continuano a presentare dubbi e incertezze. Tutti casi la cui riproposizione soddisferebbe ancora oggi un’esigenza informativa. Al contrario, nessun mistero ha mai accompagnato la tragica vicenda di Milena Sutter, il cui carnefice fu individuato e arrestato dopo soli pochi giorni.
Da questo punto di vista, si fa molta fatica ad identificare l’interesse della collettività che verrebbe soddisfatto attraverso la rievocazione del caso Sutter. A meno che non lo si voglia considerare uno di quei casi per i quali l’interesse pubblico non viene mai meno. Ed è proprio quello che fa il Tribunale, quando si dice certo che su quei fatti “non si sia mai sopito l’interesse della collettività”.
Tuttavia, è difficile condividere questa affermazione. Non si può dire che il caso Sutter abbia in qualche misura modificato il corso degli eventi in Italia, come invece può dirsi per le stragi, l’attentato al Papa, il caso Moro, o i fatti più eclatanti relativi a “Tangentopoli”, ed altri ancora. Il caso Sutter non è Storia, ma una tragica vicenda, purtroppo non unica, conclusa e consumata. Tecnicamente, l’interesse pubblico verso di esso si è affievolito. Il caso Sutter è ormai un “fatto privato”.
Ma “privato” per chi? E’ questo il nodo da sciogliere. Chi può qui legittimamente invocare il diritto all’oblìo?
Può invocare il diritto all’oblìo soltanto chi, con la rievocazione dei fatti, si vedrebbe potenzialmente leso in quei diritti (onore, decoro, reputazione) normalmente sacrificabili da un legittimo esercizio del diritto di cronaca. Ed il titolare di questi diritti non può che essere l’autore del delitto. Non i familiari di Milena, i quali non vengono certo messi in cattiva luce dalla rievocazione dei fatti. E’ vero che per essi una simile rievocazione può essere dolorosa, ma non esistono argomentazioni giuridiche tali da far prevalere questo sia pur comprensibile sentimento sul diritto di cronaca che in questo caso tutela la Rai.
L’unica pretesa che avrebbero potuto avanzare i familiari (in questo caso, però, solo i genitori, non anche i fratelli) riguarda l’abuso dell’immagine di Milena. L’art. 10 del codice civile dà la possibilità di rivolgersi al giudice “qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita”. In genere, ciò che legittima la diffusione dell’immagine di una persona senza il suo consenso è la notorietà o il collegamento dell’immagine a fatti di interesse pubblico o svoltisi in pubblico (art. 97 L. n. 633/41). Essendo svanito l’interesse pubblico per i motivi già detti, l’immagine di Milena non avrebbe potuto essere trasmessa dalla Rai senza il consenso dei genitori. Ma, per il resto, non sarebbe stato possibile imporre limitazioni di sorta. Men che meno invocare la tutela del diritto al nome, non essendo questo un caso di “uso indebito”.