L'Avvenire lincia un medico
Su “L’Avvenire” del 10 ottobre 1976 appare un articolo a firma D.T. su un episodio accaduto in una fabbrica milanese, dove un’operaia, tale Angelina, aveva subìto un aborto spontaneo. L’articolo usa termini molto duri nei riguardi del dott. A.F., medico della fabbrica. Reca il titolo “Si allunga la catena degli aborti bianchi. Un bimbo mai nato sul banco di lavoro” e sottotitolo “Le drammatiche testimonianze delle operaie. Aperta inchiesta della Pretura del Lavoro”. L’articolista descrive quanto accaduto riportando le testimonianze delle colleghe di Angelina. E sintetizza il comportamento degli operatori, scrivendo: “Ci sono volute più di due ore e la mobilitazione di tutti gli operai della fabbrica perché Angelina fosse caricata su un’autolettiga e trasportata all’ospedale. Due ore che la povera ragazza avrebbe trascorso in un assurdo andirivieni tra il reparto e lo studio del medico della ditta, che soltanto di fronte all’impietosa esibizione del feto espulso, si è convinto che proprio di aborto si trattava”.
Il dott. A.F. ritiene l’articolo gravemente diffamatorio e sporge querela nei riguardi di D.T. e del direttore responsabile. Il Tribunale di Milano condanna i suddetti per diffamazione aggravata. Ma la Corte d’appello riforma la sentenza riconoscendo l’esercizio del diritto di cronaca. Allora il dott. A.F. ricorre per cassazione.
La Suprema Corte annulla la sentenza d’appello escludendo la sussistenza del diritto di cronaca. Afferma che “Quando fa consapevolmente difetto il necessario rapporto di proporzione tra fatti narrati ed il modo, non solo vibrante di partecipazione emotiva, della loro esposizione, non può invocarsi il legittimo esercizio del diritto di cronaca”. In casi simili “risulta del tutto insussistente la cronaca stessa, che non si immedesima in una narrazione qualunque dei fatti, ma nella narrazione oggettiva e formalmente corretta”.
La sentenza è condivisibile. Qui la violazione del requisito della continenza formale appare evidente. Non è seriamente credibile, infatti, la circostanza che il medico avesse capito che si trattava di aborto spontaneo soltanto dopo “l’impietosa esibizione del feto espulso”.
L’articolista ricorre ad un paradosso per colpire il medico ed evidenziarne la presunta incapacità professionale. A ben vedere, vi sarebbe la violazione del requisito della verità, in quanto viene comunicato al lettore un fatto non vero, ossia l’avere il medico diagnosticato l’aborto spontaneo soltanto ad espulsione di feto avvenuta. Ma è pure evidente che un fatto del genere non può essere possibile, e che si tratta di una “caricatura” inserita dall’articolista proprio allo scopo di colpire il medico sottolineandone l’inadeguatezza manifestata in occasione dell’incidente. Quindi, non sarebbe nemmeno serio parlare di violazione del requisito della verità. E’ una questione di continenza formale, violata attraverso la rappresentazione immaginaria di un fatto non credibile e idoneo meglio di ogni altro a sottolineare l’incapacità di un soggetto.
Da notare anche il macabro scenario disegnato dall’articolista, laddove si riferisce espressamente all’espulsione del feto. Un’immagine indubbiamente molto forte, che fa propendere per una violazione palese del requisito della continenza formale, ossia una violazione rientrante nella prima categoria. Ciò in quanto l’espulsione del feto è fatto esplicitamente indicato e di per sé poco credibile, tanto da non poter essere in alcun modo considerato quale “sottinteso sapiente”, o “accostamento suggestionante”, o “insinuazione”, ma solo strumento per portare un attacco personale e denigratorio.
Più semplicemente, nel caso in questione la violazione del requisito della continenza formale appare evidente per il fatto che l’articolista ha espresso una critica in un contesto informativo, ossia di cronaca.