Ipocrisia nella lotta alla pirateria
Nel 1998 la Guarda di Finanza compie una perquisizione che porta al sequestro di 450 videocassette pirata. La perquisizione avviene nei locali di una società commerciale esercente attività di distribuzione di videocassette, il cui titolare risulta essere D.G., vicepresidente dell’Unione Distributori Italiani.
Ovviamente il fatto non passa inosservato. Sul periodico “V.” viene dato ampio risalto alla notizia. L’articolo, a firma A.A., parla di “montagne di cassette pirata” sequestrate a D.G.; ritiene la notizia “sconcertante se si pensa che D.G. è anche vicepresidente dell’Unione Distributori Italiani, da sempre impegnata nella lotta contro la pirateria cinematografica”; parla di D.G. come uno di quelli “che propongono quello spot dove un tizio viene travolto da centinaia di cassette… sugli scaffali di un magazzino che sembra il luogo di un delitto… e proprio di un delitto si tratta, ci ricordano i pubblicitari facendo grondare sangue dalla scritta: se compri una cassetta pirata uccidi il cinema”.
D.G. ritiene l’articolo diffamatorio. E querela l’articolista e il direttore responsabile per diffamazione. Il Tribunale di Milano condanna i due imputati e li obbliga al risarcimento dei danni, sulla base della violazione del requisito della continenza formale. La Corte d’Appello di Milano conferma la condanna, ma riduce l’entità della pena e del risarcimento. Gli imputati ricorrono per cassazione.
La Suprema Corte annulla la sentenza d’appello escludendo la violazione del requisito della continenza formale. Afferma che “Il limite della continenza formale, entro il quale deve svolgersi un corretto diritto di cronaca, viene superato solo quando le informazioni, pur vere, si risolvano – per il lessico impiegato, per l’uso strumentale delle medesime, per la sostanza e la forma dei giudizi che le accompagnano – in un attacco personale e gratuito al soggetto cui si riferiscono: quando cioè si realizzi una lesione del bene tutelato attraverso il modo stesso in cui la cronaca viene attuata”.
Giustamente la Corte di Cassazione ha posto nel nulla le sentenze di condanna emesse in primo e secondo grado. Queste avevano considerato alcuni passaggi dell’articolo sproporzionati nei toni e nei contenuti rispetto alla vicenda. E’ importante analizzare ciascuno dei passaggi che avevano portato i giudici di merito a propendere per la lesione della reputazione.
Il primo passo è il riferimento alle “montagne di cassette pirata” sequestrate a D.G. Secondo i giudici di merito (tribunale e appello) il termine adoperato dall’articolista è manifestamente sproporzionato rispetto alla reale vicenda, poiché alcune centinaia di videocassette costituiscono una frazione irrisoria rispetto alla quantità globalmente trattata da una società del settore.
Non si può essere d’accordo su un’affermazione del genere. La notizia non consiste tanto nel ritrovamento di 450 videocassette pirata, quanto nel fatto che titolare dell’azienda presso cui era avvenuto il sequestro è proprio D.G., vicepresidente dell’Unione Distributori Italiani, ossia l’ente che più di ogni altro è interessato e impegnato a contrastare il fenomeno della pirateria. Quindi, anche ammesso che il ritrovamento di 450 videocassette pirata possa in sé considerarsi poca cosa, acquista tutt’altro significato in quanto evidentemente riferito a un soggetto che in privato persegue un fine opposto a quello istituzionalmente dichiarato.
Per quanto riguarda i commenti dell’articolista, la Corte d’Appello aveva concluso per la carica sensazional scandalistica dell’articolo, che poneva il lettore “di fronte ad un D.G. scandaloso alimentatore del traffico illecito che invece egli, in virtù della sua carica, avrebbe dovuto contrastare”.
Questa affermazione vorrebbe motivare la condanna, ma al contrario è la dimostrazione che l’articolo ha pienamente rispettato il requisito della continenza formale, se lo scopo del requisito è quello di mantenere, nella divulgazione di una notizia, l’obiettività del messaggio informativo. Che D.G., in virtù della propria carica, dovesse fare qualsiasi sforzo per contrastare la pirateria, è un’ovvietà. Che nel farsi trovare con 450 videocassette pirata avesse dato prova non soltanto di non voler compiere alcuno di quegli sforzi, ma anche di alimentare sia pure minimamente un mercato illecito, è una deduzione elementare. Non certo il frutto di un artificio del giornalista.
La conclusione cui perviene il lettore dell’articolo non deriva dall’opera del giornalista, ma da un’elementare analisi dei fatti narrati. D.G. che fornisce il suo modesto contributo al mercato clandestino delle videocassette, anziché reprimerlo come dovrebbe, non è un travisamento dei fatti indotto dal giornalista, ma è il messaggio che deriva direttamente da una corretta rappresentazione della vicenda.