Da barone a corrotto

In data 11 gennaio 1994 sulla cronaca torinese del quotidiano “La Repubblica” appare un articolo intitolato “M.B. e la tangentopoli universitaria” a firma M.N. in cui viene data la notizia dell’avvio di un procedimento penale a carico del prof. M.B., ordinario presso la facoltà di medicina dell’Università di Torino. Il tutto sarebbe partito da una querela presentata ai danni del professore da una dottoressa, bocciata ad un concorso universitario bandito nella stessa facoltà, che ha denunciato abusi e irregolarità commessi dal professore per avvantaggiare candidati “propri”.

Il prof. M.B. cita in giudizio articolista ed editore dinanzi al Tribunale di Torino, chiedendo il risarcimento dei danni che l’articolo diffamatorio gli ha causato. Il Tribunale accoglie la domanda, affermando che “L’uso di un titolo falso e fuorviante può produrre notevoli effetti dannosi, laddove si consideri che il titolo, per il rilievo dei caratteri che lo contraddistinguono, assolve la funzione naturale di richiamare l’attenzione del lettore” e che “Il riferimento, contenuto nel titolo, ad una “tangentopoli universitaria”, termine ricollegabile all’intreccio tra politica e dazione di tangenti non avente alcun nesso con la vicenda effettiva, si deve ritenere tendenzioso, suggestionante e lesivo della reputazione, in quanto implicante tra il pubblico possibili errati convincimenti circa il coinvolgimento in atti di corruzione”.

(Trib. Torino 18 maggio 1996)
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Il caso in questione rappresenta un classico esempio di violazione del requisito della continenza formale attraverso un accostamento suggestionante.

Il professore è indagato per abuso d’ufficio in relazione ad un concorso universitario truccato, ma il titolo dell’articolo lo accosta a “Tangentopoli”. Se si considera che “Tangentopoli” ha fatto luce su episodi riconducibili alle più gravi forme di concussione e corruzione, si capisce agevolmente come l’articolo in sostanza attribuisca al professore un fatto ben più grave di quello realmente contestatogli.

Un conto, infatti, è favorire qualche allievo nel superamento di un singolo concorso universitario. Un altro conto è essere inseriti in un losco giro che prevede la ricezione di grosse somme di denaro per compiere più o meno frequentemente atti contrari ai doveri d’ufficio, come fa supporre l’esplicito riferimento del titolo al più grosso caso di corruzione registratosi nella storia della Repubblica. Tra l’altro, l’accostamento è ancora più suggestionante, e maggiore l’effetto lesivo, se si considera che agli inizi del 1994 “Tangentopoli” non era certo un ricordo lontano, ma al contrario un fenomeno i cui effetti erano tutt’altro che esauriti.

La difesa del quotidiano era prevalentemente incentrata sulla circostanza che il titolo non aveva alcun valore informativo, poiché il contenuto dell’articolo riportava fedelmente i fatti così come appresi dalle fonti giudiziarie. Di conseguenza, il lettore non avrebbe mai potuto ricevere un’informazione distorta.

Ovviamente l’argomentazione è infondata. Il titolo assume un’importanza fondamentale nel messaggio informativo, cosa ben nota ai giornalisti e non solo. E’ risaputo che una buona parte dei lettori si limita a sfogliare il giornale per selezionare gli articoli da approfondire, dedicando a tutto il resto un esame superficiale, consistente nella lettura dei titoli e degli occhielli. Il semplice accostamento del professore a “Tangentopoli” attraverso il titolo lo ha danneggiato molto più di quanto non avrebbe fatto l’attribuirgli nei dettagli, all’interno dell’articolo, un ipotetico episodio di corruzione.

Molti dei lettori, associando il titolo al nome del professore, lo hanno inevitabilmente collocato in un ampio contesto di corruzione. E non è detto che una simile errata impressione sarebbe stata corretta dalla lettura integrale dell’articolo. Anche se questo avesse comunicato al lettore, come nei fatti, che il professore si era limitato ad avvantaggiare qualche allievo in un concorso universitario, il significato prevalente imposto dal titolo avrebbe lasciato il lettore nel convincimento che il professore avesse commesso qualcosa di molto più grave di quanto riferito nell’articolo.