LA CRITICA STORICA
La critica storica ha per oggetto la rivisitazione e la reinterpretazione di fatti e comportamenti relativi a personaggi del passato. La sua importanza non deriva soltanto da un’esigenza culturale. Il passato continua a condizionare, almeno in parte, il presente. Parecchi partiti politici, ad esempio, si ispirano a personaggi vissuti molti anni fa. La critica nei riguardi di questi ultimi può incidere sul rapporto che lega i primi alla collettività. Pertanto, si comprende agevolmente l’importanza del dibattito al quale la critica storica può dare vita.
Non si pongono particolari problemi quando la critica connota negativamente un personaggio del passato attraverso un giudizio complessivo sulla sua persona. Qui la valutazione, per quanto negativa e soggettiva, è indiscutibilmente riconducibile alla libertà di manifestazione del pensiero sancita all’art. 21 Cost. E va espressa nel rispetto del requisito della continenza formale.
Ma la critica storica non si manifesta solo attraverso valutazioni. A volte si propone di accertare fatti. Quand’è così, la critica rivisita il passato e scopre fatti nuovi. Addirittura arriva a contraddire quella che si credeva verità acquisita, offre nuove prove che smentiscono documentazioni e testimonianze esistenti o tramandate, consegnando al pubblico una verità “aggiornata”. E spesso accade che la ricostruzione storica si riveli lesiva della reputazione di un personaggio del passato, attribuendogli fatti o comportamenti che lo connotano negativamente agli occhi del pubblico.
Qui è utile una precisazione. Per evidenti motivi, la critica storica lesiva della reputazione non potrà essere perseguita dal personaggio leso. A questo provvede l’art. 597, comma 3°, del codice penale, il quale individua tra i soggetti che possono proporre querela, in caso di offesa alla memoria di un defunto, “i prossimi congiunti, l’adottante e l’adottato”. E’ chiaro che la norma potrà applicarsi anche nell’eventualità in cui chi ha facoltà di querela optasse per una richiesta di risarcimento danni unicamente in sede civile. Ed è altrettanto chiaro che la formulazione della norma restringe notevolmente l’ambito generazionale entro cui poter agire in giudizio.
Ci si chiede se al lavoro del critico storico possa estendersi la libertà di scienza di cui all’art. 33 Cost., basandosi la storiografia su un metodo scientifico. Si è già visto in LA CRITICA SCIENTIFICA come tale principio costituzionale renda irriferibile il contenuto della critica al requisito della verità, non esistendo una scienza ufficiale, ossia “vera”. Se si estendessero allo storico i “privilegi” che l’art. 33 Cost. accorda allo scienziato, diverrebbe legittima qualsiasi critica storica a prescindere dalla verità dei fatti su cui poggia, in quanto ogni ricostruzione della realtà sarebbe libera, anche se diffamatoria nei riguardi di un personaggio defunto.
Ma non è così, a causa della diversità dei presupposti sostanziali. La differenza fondamentale tra critica storica e critica scientifica sta nei rispettivi oggetti. Con la critica scientifica non si attribuiscono “fatti”. Il critico scienziato si limita a contestare, nel rispetto del requisito della continenza formale, la validità delle teorie sostenute da un collega. La reputazione dello scienziato può essere lesa soltanto attraverso il modo in cui la critica scientifica viene esercitata, ossia in violazione del requisito della continenza formale.
Al contrario, nella critica storica, ad una personaggio pubblico del passato possono venire attribuiti fatti o comportamenti destinati a suscitare il biasimo generale. In altre parole, mentre nella critica scientifica il destinatario viene colpito solo di riflesso, poiché la carica lesiva della critica si concentra su metodi e teorie negandone la validità scientifica, nella critica storica la lesione si produce direttamente su fatti o comportamenti della persona.
Se il comportamento umano oggetto di critica storica non può essere paragonato alla teoria oggetto di critica scientifica, non è possibile ricondurre la storiografia alla libertà di scienza di cui all’art. 33 Cost. Pertanto, lo storico non è libero di proporre qualsiasi ricostruzione del passato che si riveli offensiva per un soggetto.
In realtà, ciò che importa nella ricostruzione storica è il metodo utilizzato per accertare i fatti. Se il metodo consiste in una seria e diligente attività di ricerca, di analisi e di controllo delle fonti, di verifica dei risultati ed è basato sulla logicità delle conclusioni, allora la ricostruzione dei fatti è libera perché consentita dall’art. 21 Cost.; e l’eventuale lesione alla reputazione giustificata. Che è poi, a ben vedere, quello che accade nella cronaca. Anche nella cronaca, infatti, il serio e diligente lavoro di ricerca della verità è sufficiente a deresponsabilizzare il giornalista, vista la rilevanza del concetto di verità putativa.
Ciò significa che neanche nella storiografia, come nella scienza, esistono conclusioni “vere”, ma soltanto conclusioni che possono essere “accettate” grazie alla serietà del metodo di ricerca seguito nell’accertamento dei fatti. E quanto più il metodo adottato potrà essere considerato un modello da seguire, tanto più il risultato sarà inattaccabile, avvicinandosi ad un’idea di “verità”. Il metodo di lavoro del critico storico, come del resto quello seguìto in alcuni casi dal giornalista, può essere paragonato al metodo scientifico utilizzato dallo scienziato.
Ma se il metodo utilizzato nella critica storica e, in alcuni casi, nella cronaca ricalca quello dello scienziato, a differenziarle dalla scienza è il condizionamento che sulla loro attività opera il concetto di fonte ufficiale. Concetto che, consistendo in una finzione di verità, è assolutamente inconciliabile con l’idea di scienza accolta dall’art. 33 Cost. Mentre l’attività di ricerca dello scienziato è assolutamente libera nel risultato, quella del critico storico e del giornalista è vincolata al rispetto dei fatti contenuti nelle fonti ufficiali.
La ricerca storiografica e giornalistica coincide con quella scientifica solo quando verte su fatti non acquisibili da fonti ufficiali. Non acquisibili o perché queste ultime non esistono, o perché la ricerca si propone proprio di contraddire i fatti in esse contenuti. E’ un fenomeno riscontrabile nel cosiddetto giornalismo di inchiesta, che prescinde dal contenuto di fonti ufficiali. Qui conta soltanto il metodo utilizzato per l’accertamento dei fatti. E il giornalista d’inchiesta è la figura che più si avvicina allo scienziato, poiché il suo lavoro si basa su un metodo puramente attivo di ricerca, svincolato da ogni indicazione proveniente da fonti ufficiali.
Quindi, nel lavoro compiuto dal critico storico, dal giornalista di inchiesta e dallo scienziato, non ha senso operare una differenziazione tra art. 21 e art. 33 Cost., laddove non esistano quel condizionamento delle fonti ufficiali in genere presente nell’attività dei primi due. Conta soltanto il metodo scientifico della ricerca. Se il metodo di indagine può considerarsi scientifico, sia il critico storico che il giornalista di inchiesta, pur operando sotto la tutela dell’art. 21 Cost. (poiché il loro lavoro è comunque diretto ad accertare fatti), possono rivendicare la stessa libertà di risultato che l’art. 33 Cost., prescindendo da ogni verità ufficiale, garantisce allo scienziato.