Il sindacalista infedele
Tra il luglio 1989 e l’ottobre 1990 vengono pubblicate sul quotidiano “Il Manifesto” e diversi organi di informazione siciliani alcune interviste rese da G.B., lavoratore dipendente della F. S.p.a. e rappresentante sindacale. G.B. accusa l’intera dirigenza aziendale di aver favorito, con il “sempre più massiccio ricorso a lavori di appalto e subappalto” l’infiltrazione di “ditte irregolari o legate a personaggi in odore di mafia”, traendone un tornaconto in termine di “riduzione di costi aziendali”, poiché tali ditte assicuravano “una bassa conflittualità e prezzi competitivi, senza curarsi dei pesanti costi umani e sociali derivanti dal dilagare del lavoro nero e dall’arretramento dei livelli di sicurezza sul posto di lavoro”. In questa strategia si inseriva anche un “uso distorto della cassa integrazione per dare spazio al sistema di appalti e subappalti, ma anche per colpire e neutralizzare quei dipendenti che si ostinavano a non abbassare la testa dinanzi all’irresponsabile arroganza aziendale”.
Con lettera del 13.11.90 la F. S.p.a. intima il licenziamento di G.B. per avere questi leso l’immagine dell’azienda. Il Pretore di Palermo, su ricorso di G.B., gli riconosce il diritto di critica e annulla il licenziamento e ne ordina l’immediata reintegrazione nel posto di lavoro. Il Tribunale di Palermo annulla la sentenza dichiarando invece legittimo il licenziamento. G.B. ricorre per cassazione.
La Suprema Corte respinge il ricorso di G.B. Secondo i giudici, l’esercizio, da parte del lavoratore, del diritto di critica che violi il requisito della verità oggettiva, può rivelarsi lesiva dell’immagine dell’impresa. Di conseguenza, tale critica “è suscettibile di violare il disposto dell’art. 2105 c.c. e di vulnerare la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nel lavoratore, rilevando come giusta causa di licenziamento”, poiché il lavoratore deve “astenersi da qualsiasi condotta che, per la sua natura, e le sue possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nell’impresa o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto di lavoro”.
La sentenza ha rilevato che le dichiarazioni rese da G.B. nelle numerose interviste rilasciate contenevano fatti non veri e lesivi della reputazione dell’azienda di cui era dipendente. Nel corso del processo si è appurato, infatti, che non era vero che l’impresa affidava i lavori in subappalto a “ditte legate a personaggi in odore di mafia”, poiché non era risultato che queste avessero mai subito provvedimenti interdettivi o sanzioni ai sensi della legislazione antimafia. Né era stato provato che si fossero mai verificati incidenti sul lavoro dai quali poter desumere il denunciato “arretramento dei livelli di sicurezza sul posto di lavoro”. Circostanze non vere e che la Suprema Corte ha ritenuto lesive dell’immagine pubblica dell’impresa.
La Suprema Corte ha basato la propria decisione sulla violazione dell’art. 2105 c.c. Le affermazioni del dipendente avrebbero violato quella norma, incrinando il rapporto di fiducia che deve sussistere tra lavoratore e datore di lavoro, legittimando così il licenziamento.
La decisione è condivisibile. Ma non può dirsi la stessa cosa delle argomentazioni addotte. E’ vero che il diritto di critica sindacale non può basarsi sulla attribuzione di fatti falsi; e che tale circostanza può in certi casi legittimare una sanzione estrema come il licenziamento. Ma non sulla base dell’art. 2105 c.c.
L’art. 2105 c.c. impone al lavoratore dipendente il cosiddetto obbligo di fedeltà, stabilendo che “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. Un’attenta lettura della norma non potrebbe che portare alla seguente conclusione: essa si riferisce a comportamenti del lavoratore che possono pregiudicare la competitività dell’azienda sul mercato a vantaggio del lavoratore stesso o di una specifica impresa concorrente. Fattispecie, quindi, che non ha nulla a che vedere con il caso in questione.
Ma buona parte della giurisprudenza fornisce un’interpretazione estensiva di quella norma, facendovi rientrare “qualsiasi comportamento lesivo degli interessi del datore di lavoro, tale da pregiudicare il vincolo fiduciario che è alla base del rapporto”. Si può essere o non essere d’accordo con questa interpretazione; ma è certo che l’art.2105 c.c., a differenza di quanto sostenuto dalla Suprema Corte nel caso in commento, non può riferirsi ad una manifestazione di critica sindacale, per i motivi che seguono.
Il codice civile entra in vigore nel 1942. E le relative norme maturano in un preciso contesto ideologico, che in materia di lavoro vede: la negazione del conflitto di classe a vantaggio di una produzione concepita soltanto nell’interesse nazionale; l’esclusivo riconoscimento dei sindacati corporativi espressione dello Stato fascista anziché dei lavoratori; la repressione penale dello sciopero. E’ in questo contesto che viene sancito l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., che presuppone una assoluta coincidenza di interessi tra Stato, datore di lavoro e lavoratore.
Con la caduta del regime fascista e l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il quadro muta radicalmente. L’organizzazione sindacale diventa libera (art. 39 Cost.) e avulsa da un contesto statale o padronale, mentre lo sciopero da reato diventa diritto (art. 40 Cost.). Ed è sulla base di questa opposta visione che va considerato l’art. 2105 c.c. Non è più una norma dettata da una concezione che nega l’antagonismo di classe, ma una norma regolante un rapporto basato su una conflittualità, quest’ultima resa possibile proprio dal riconoscimento della libertà sindacale e dalla funzione che la stessa Costituzione le attribuisce. In quest’ottica, è chiaro che l’espressione “obbligo di fedeltà” mal si concilia con l’attività di perseguimento di interessi del lavoratore, opposti a quelli del datore di lavoro, che caratterizza anche la più lieve delle manifestazioni sindacali.
Di conseguenza, ritenere l’art. 2105 c.c. applicabile anche alle espressioni di libertà sindacale, sarebbe incompatibile con lo stato di cose creato dalla Costituzione. In altre parole, l’obbligo di fedeltà del lavoratore non può ritenersi violato da una manifestazione di critica sindacale, anche se illegittima. Proprio in quanto nell’esercizio della libertà sindacale il lavoratore, perseguendo interessi opposti a quelli aziendali, non può essere “fedele”. Il datore di lavoro già dispone di un adeguato strumento di reazione ad una critica sindacale illegittimamente e gravemente lesiva della sua reputazione: il licenziamento per giusta causa, sempre intimabile “qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” (art. 2119 c.c.).
Nel caso di specie, il comportamento di G.B. avrebbe dovuto essere ricondotto non alla violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., ma direttamente e autonomamente alla “giusta causa” di licenziamento prevista all’art. 2119 c.c. Anche se il risultato finale resta lo stesso, la precisazione è importante. Stabilire un collegamento permanente tra l’art. 2105 c.c. e i possibili “eccessi” dell’attività sindacale diventerebbe una contraddizione in termini, oltre che pericoloso. Del resto, riferire l’obbligo di fedeltà del lavoratore alle sue manifestazioni sindacali porterebbe ad un risultato paradossale: si farebbe quello che lo stesso Legislatore fascista non ha fatto perché l’ideologia dell’epoca, disconoscendo la libertà sindacale, non poteva nemmeno concepire che quest’ultima potesse essere svolta dal lavoratore in modo “infedele”.
Tutto questo porta ad avvalorare la tesi che vede nell’art. 2105 c.c. una norma dettata esclusivamente allo scopo di tutelare il datore di lavoro da atti che possano pregiudicare la competitività dell’azienda e provocarle un danno economico.