Vittorio Sgarbi e i pm politicizzati
Il 17 agosto 1998 sul quotidiano “Il Giornale” viene pubblicata un’intervista di Vittorio Sgarbi (allora assessore alla Cultura del Comune di Milano) sul caso del suicidio di Luigi Lombardini, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari. Sgarbi ricollega il tragico avvenimento all’operato dei pubblici ministeri del pool antimafia di Palermo, con particolare riferimento a Giancarlo Caselli. Afferma che quest’ultimo, per quel che è accaduto, è “passibile di arresto” e che quelle dei magistrati del pool antimafia sono “indagini politiche”.
Sgarbi viene querelato da tutti i membri del pool per diffamazione aggravata. Sia il Tribunale di Monza che la Corte d’Appello di Milano lo riconoscono colpevole. Sgarbi ricorre in Cassazione, invocando il diritto di critica.
La Corte di Cassazione conferma la condanna, affermando che “Non sussiste l’esimente del diritto di critica allorché un magistrato del pubblico ministero venga accusato di svolgere indagini politiche” poiché in generale “l’accusa di asservimento della funzione giudiziaria ad interessi personali, partitici, politici, ideologici, ovvero accuse di strumentalizzazione di quella funzione per il conseguimento di finalità divergenti da quelle che debbono guidare l’operato dei pm, stanti le attribuzioni ed i doveri istituzionali che caratterizzano la posizione ordinamentale di tale rango […] assumono portata offensiva, risolvendosi in un attacco alla sfera morale della persona”.
In generale, non può considerarsi un’offesa dare del “politicizzato” a una persona. Ciò anche quando svolge un’attività che mal si concilia con l’eventuale caratterizzazione politica della persona stessa. E’ il caso del magistrato. Nonostante la sua appartenenza a “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104 Cost.) che lo separa nettamente dalla sfera di azione della politica, le sue eventuali convinzioni politiche rientrano indiscutibilmente nella libertà di pensiero che l’art. 21 Cost. garantisce a chiunque. Di conseguenza, non può mai costituire offesa l’attribuzione a un magistrato di una determinata posizione politica.
Tuttavia, il quadro muta radicalmente se il magistrato è accusato di esercitare la funzione giudiziaria privilegiando gli interessi di quella parte politica a favore della quale rivolge il proprio eventuale intimo convincimento. E’ proprio il caso del pubblico ministero che viene accusato di svolgere “indagini politiche”.
Quella giudiziaria è una funzione delicatissima: accertare e reprimere le violazioni della legge. Il pubblico ministero deve condurre le indagini nel rispetto dell’art. 112 Cost., che gli impone “l’obbligo di esercitare l’azione penale”; e dell’art. 3 Cost., secondo cui “Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge”. Accusare un pubblico ministero di favorire una parte politica nella conduzione delle indagini significa imputargli entrambe le violazioni.
Tra l’altro, l’accusa a un pm di svolgere un’indagine in funzione del colore politico dell’indagato insinua inevitabilmente il dubbio circa la commissione, da parte del pm stesso e dei suoi collaboratori, di gravi reati come la costituzione di prove false, l’occultamento di prove vere, l’omissione di atti d’ufficio, la rivelazione di segreti, l’abuso d’ufficio, la calunnia.
E non deve trarre in inganno la leggerezza che reca in sé il termine “politico”. Il quale, se è connaturato al concetto stesso di democrazia, in realtà assume valenza offensiva se riferito ai magistrati che, per Costituzione, devono agire al di sopra dell’azione politica, essendo “soggetti soltanto alla legge” (art. 101, comma 2°, Cost.); e, soprattutto, contro l’azione politica, a prescindere dal “colore”, ogni volta che risulti esercitata proprio in violazione di quella legge che costituisce l’unico limite all’azione giudiziaria.
Sotto questo aspetto, attribuire a un pm la paternità di “indagini politiche” è ancora più offensivo che dare del ladro a un ministro. Se infatti la giustizia “è amministrata in nome del popolo” (art. 101, comma 1°, Cost.), il pm che svolgesse “indagini politiche” violerebbe clamorosamente questa prescrizione, perché avrebbe come unico fine quello di danneggiare una componente politica rappresentativa di una parte di quel popolo in nome del quale svolge la funzione giudiziaria.
Tutto ciò non significa che i magistrati non possano essere criticati. Anzi, anche l’eventuale uso politico dell’indagine da parte di un pm può essere pubblicamente denunciato. Ma è necessario che la critica rispetti il requisito della verità. Vale a dire, la critica dovrà essere accompagnata dalla indicazione di quegli elementi obiettivi che nel caso specifico dimostrino la preconcetta ostilità del magistrato nei riguardi dell’indagato in quanto espressione di una fazione politica, senza che la semplice sottoposizione a indagine di una personalità politica possa essere considerata di per sé una prova dell’esistenza di una “indagine politica”.