Una fellatio a Palazzo Madama
Nel 1994, subito dopo l’insediamento del primo governo Berlusconi, in occasione delle votazioni per la fiducia al nuovo governo, la senatrice E.A.C., di “Forza Italia”, dal proprio seggio pronuncia un discorso infarcito di elogi all’indirizzo del nuovo Presidente del Consiglio. Qualche giorno dopo, sull’inserto “Venerdi” del quotidiano “La Repubblica”, accanto ad un articolo di S.F. dal titolo “Riso amaro” appare una vignetta di Vauro, raffigurante una donna che dal proprio seggio succhia un microfono, con la seguente dicitura: “Mostriciattoli, la senatrice A.C. (due cognomi al prezzo di uno) esprime il suo apprezzamento per la relazione Berlusconi spompinando direttamente il microfono”.
La senatrice A.C. non gradisce la vignetta e querela articolista, Vauro e direttore responsabile. Il Tribunale di Roma assolve i tre imputati riconoscendo il diritto di satira. La Corte d’Appello di Roma, invece, li condanna. I tre ricorrono in Cassazione.
La Suprema Corte conferma la condanna inflitta dalla Corte d’appello. E afferma che “Sul piano della continenza, il linguaggio essenzialmente simbolico e frequentemente paradossale della satira, in particolare quella grafica, è svincolato da forme convenzionali, onde non si può applicarle il metro consueto di correttezza dell’espressione. Ma, al pari di ogni altra manifestazione del pensiero, essa non può superare il rispetto dei valori fondamentali, esponendo la persona al disprezzo, oltre al ludibrio della sua immagine pubblica”.
Non c’è dubbio che il messaggio satirico veicolato dalla vignetta abbia un contenuto volgare. Ma la motivazione della Suprema Corte, che qui ha escluso il diritto di satira, non appare convincente.
La sentenza, in ogni suo passo, difende apertamente la satira, riconoscendole il carattere di arte e svincolandola dai criteri generalmente adoperati per verificare la legittimità della cronaca e della critica. Insomma, ammette che la satira è a sé stante, essendo una forma d’arte. Ma al tempo stesso afferma che “non può superare il rispetto dei valori fondamentali, esponendo la persona al disprezzo, oltre al ludibrio della sua immagine pubblica”, pena la violazione del requisito della continenza formale. Ebbene, è proprio qui il punto debole della sentenza.
La sentenza fa leva sulla volgarità della vignetta laddove raffigura la senatrice di “Forza Italia” impegnata in una fellatio con il microfono del seggio. Che nella vignetta satirica del Vauro vi siano elementi di volgarità può essere condivisibile. Ma riconoscere alla vignetta la natura di opera satirica e, nel contempo, giudicarla illecita facendo leva sulla sua volgarità, è giuridicamente una contraddizione in termini, per i motivi che seguono.
Nel sancire la libertà dell’arte, l’art. 33 Cost. impedisce al giudice un controllo di merito sull’opera d’arte. Se il giudice ritiene che un’opera debba ricondursi al concetto di “arte”, non può esprimere ulteriori giudizi e deve considerarla lecita. Ciò in quanto la libertà dell’arte è svincolata da canoni etici, religiosi o sociali. E’ questa una conseguenza che travolge il concetto di buon costume, che invece costituisce un limite alla libertà di pensiero di cui all’art. 21 Cost. Ossia, una volta che l’opera d’arte viene considerata tale, il problema della sua conformità al buon costume non si pone nemmeno. L’arte, per definizione, non può essere contraria al buon costume. L’arte è sempre lecita.
Il giudice, quindi, deve solo verificare se nell’opera sia presente una componente artistica, una sua originalità, sia pur minima. Se l’esito della verifica risulterà positivo, dovrà escludere che l’opera è oscena, proprio in quanto arte, sempre lecita perché libera ex art. 33 Cost.
Ora, nel caso della vignetta di Vauro, anche se qualcuno può considerarla di dubbio gusto, è incontestabile che si tratti di rappresentazione satirica (quindi artistica). La componente satirica (quindi artistica) della vignetta del Vauro è data dalla discutibile ma indubbiamente originale rappresentazione, in termini dissacratori, del particolare stato d’animo della senatrice forzista durante il discorso di adesione al programma del proprio leader, sottolineata dalla dicitura che accompagna la vignetta. Essendo rappresentazione artistica, il giudice non può ricollegarne il carattere illecito all’eventuale contenuto volgare. In quanto satira, il giudice deve soltanto verificare se ne sussiste il requisito di legittimità: il nesso di coerenza causale tra qualità della dimensione pubblica del personaggio raffigurato e contenuto del messaggio satirico.
Ebbene, non vi sono dubbi sulla sussistenza di questo requisito. Tramite il richiamo alla fellatio, il vignettista ha voluto rappresentare, in termini critici, la soddisfazione manifestata dalla senatrice forzista nel tessere le lodi di Berlusconi. Soddisfazione pubblicamente manifestata, in occasione del voto di fiducia, attraverso il discorso di piena e incondizionata adesione al programma del proprio leader. E’ questo, e solo questo, che la raffigurazione della fellatio con il microfono del seggio senatoriale vuole esprimere, non certo alludere a presunti modi di essere o di fare personali della senatrice forzista.
Il microfono del seggio senatoriale non vuole essere l’oggetto del desiderio della senatrice forzista, come sembra considerare la Suprema Corte quando sostiene che la vignetta l’ha esposta al pubblico disprezzo. L’equivoco su cui è inciampata la Suprema Corte è l’aver interpretato la vignetta come se attribuisca alla senatrice la volontà di praticare la fellatio a Berlusconi. Il microfono, invece, è il mezzo privilegiato attraverso cui il parlamentare esercita le proprie funzioni. E la fellatio praticata al microfono vuole solo accentuare, in termini certamente critici e paradossali (ma proprio come deve accadere nella satira), lo smisurato entusiasmo manifestato dalla senatrice nel pronunciare il suo discorso di totale adesione al programma politico del proprio leader.
La vignetta avrebbe travalicato i limiti del diritto di satira se la fellatio avesse avuto come “beneficiario” lo stesso Berlusconi. La fellatio a Berlusconi, infatti, avrebbe rappresentato qualcosa di totalmente estraneo alle funzioni esercitate (pubblicamente) dalla senatrice di “Forza Italia”, interrompendo così il nesso di coerenza causale tra la sua presenza in Senato (qualità della dimensione pubblica) e il grande entusiasmo manifestato per il proprio discorso (contenuto del messaggio satirico).